Caro Sergio, so che è prevedibile e melodrammatico scrivere di te in questo modo, ma non riesco a fare diversamente, perché le lacrime ci sono e non riesco a essere distaccato ricordandoti in terza persona.

Per chi fa il nostro mestiere sei stato importante, anche con le differenze di tutti, e per tanti di noi sei stato una presenza costante, fin dall’ esordio con quel tuo Bobo che ha tirato giù le braghe al Pci tantissime volte, pur restandovi fedele e devoto, come a una mamma. Le tue vignette e le tue storielle, anche quelle svincolate dalla politica, mi hanno accompagnato per tutto il corso della mia esistenza: avevo 12 anni quando ti leggevo su linus, più avanti sulle riviste d’autore come Orient Express, poi su Tango e i quotidiani che ormai compravo e leggevo regolarmente, perché proprio grazie alle tue vignette (con quelle di Altan, di Vincino, di Ellekappa…), mi ero innamorato della satira e di questo modo così diretto e sintetico di fare informazione.

Quando ormai un quarto di secolo fa facesti pubblicare le mie vignette su l’Unità, fu una tale iniezione di fiducia che pensai per la prima volta che avesse un senso fare questo mestiere, che fosse possibile fare vignette anche uscendo dall’underground, dove fino ad allora avevo bivaccato snobbando (sbagliando) quello che consideravo il mainstream. Qualche anno dopo ti ho conosciuto di persona, quando con Giampiero Caldarella stavi formando la squadra per il nuovo inserto satirico che da lì a qualche anno avrebbe esordito su l’Unità diretta da Antonio Padellaro.

Ci incontrammo tutti a Palermo con Vincino, Giampiero e i responsabili di Libera, a un incontro su mafia e satira. Eravamo in un luogo solenne: la Biblioteca Comunale di Palermo, dove Paolo Borsellino fece il suo ultimo discorso prima di essere ucciso. Fu in quel contesto che capii che quello che facevamo (e facciamo) non sono solo vignette.

Quella sera la tv locale trasmise un servizio su di noi, e il giorno dopo in aeroporto ci avvicinarono due figuri loschi, elegantissimi. Uno dei due disse: «Siete quelli che fanno la satira? la faceste a casa vostra» seguitando con sproloqui vari in dialetto siciliano. Io me la stavo facendo addosso, fino quasi a negare che eravamo noi quelli che avevano visto alla televisione. Tu invece sorridevi, e rispondevi a tono, prendendoli per il culo.

Successivamente i nostri incontri si sono fatti più frequenti e ravvicinati, come in quella Festa de l’Unità nazionale del 2007, dove ci stanziammo con una redazione residente per pubblicare un numero quotidiano di satira interno al giornale. Seguivamo dal vivo i dibattiti, tipo quello dove Fassino disse che ci “traghettava” tutti quanti nel Pd, e un secondo dopo lo immaginavamo nelle vesti di Caronte, che portava il partito dalla culla direttamente alla tomba. Tu ci consigliavi e ci guidavi, magari limavi qualche termine sbracato, ma non mi ricordo che nessuno di noi abbia mai subìto una censura da parte tua.

In quei giorni ci raccontavi delle tue avventure politiche, della tua passione, e ammiravamo la tua tenacia e il tuo coraggio, che ti portarono ad affrontare un viaggio a Cuba, in completa solitudine, nonostante la malattia che ti stava portando alla totale cecità; una maledizione per un disegnatore. Con Emme, l’inserto divenuto organico a l’Unità, per un paio di anni abbondanti fummo con gli altri che realizzavano il giornale una vera famiglia. Il metodo (tuo e di Giampiero) era quello di creare ogni numero in modo corale, per dirla ampollosamente, “dadaista”, suggerendo temi, titoli, battute, come funzionava nei giornali francesi ai tempi di Reiser e Wolinski.

Più volte ci radunavi, a Roma, a Firenze, a Forte Dei Marmi, per confrontarci e farci conoscere, tanto che se qualcuno avesse voluto sterminare la satira italiana, avrebbe avuto la possibilità di farci fuori tutti quanti in un colpo solo. Poi anche quell’avventura è finita, abbiamo preso strade diametralmente opposte, anche ideologicamente: tu mi criticavi per dove pubblicavo le mie vignette, io ti rispondevo di guardarti invece da Renzi, che affidandoti la direzione de l’Unità, ti aveva confezionato un trappolone micidiale (come poi è stato).

Ma non è mai venuto meno il reciproco rispetto e, da parte mia, la riconoscenza: eri sempre disponibile a partecipare alle iniziative alle quali ti invitavo, e io c’ero quando ti serviva una mano coi disegni se capitavi a Bologna. Quando è morto Vincino, con cui pure mi sentivo e mi incontravo (relativamente) spesso e, recentemente, il caro Fabio Norcini, mi sono reso conto che stavano venendo meno i miei punti di riferimento artistici, ma anche di vita. A te invece attribuivo ingenuamente una forza sovrumana, pensavo che ci avresti seppellito tutti, al di là delle risate.

Fino alla notizia del tuo ricovero. Il tuo recente ritorno a casa ci aveva illuso tutti, tanto che volevo invitarti a partecipare a una mostra. Una comune, carissima, amica mi ha sconsigliato di farlo. Forse ci sentiremo al telefono, parlando di te, con il groppo in gola.

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