Barbaren è una fiction di fattura sempliciotta che racconta l’epica storia di Arminio, il Germano dal cuore generoso, che perde la pazienza e, organizzati i suoi, massacra Varo con tutte le legioni assegnate da Augusto per tenerli sotto il giogo. Quel campo di battaglia forgiò la rivalità fra teutoni e latini riprodotta da ultimo sul campo del pallone nelle disfide fra Germania, Italia e Francia. I medesimi paesi in cui un’onda simultanea di abbonati Netflix di Germania, Francia e Italia s’è vista Barbaren nella domenica d’ottobre in cui la piattaforma l’ha resa disponibile.

L’Economist, attento come sempre dall’oltremanica a quanto bolle dentro il continente ha sottolineato il tutto come un evento eccezionale giacché «i momenti in cui gli europei vedono qualcosa più o meno insieme» sono rarissimi e si riducono di regola all’Eurovision Song Contest e ai match di Champions League. Invece l’essersi radunati, sia pure da sponde storiche rivali, attorno a un’epica comune tradotta in una specie di fumetto romanzato segnerebbe il primo pigolio di una koiné televisiva dell’Unione, grazie a Netflix che tuttavia, per ironico scherzo della sorte, è una piattaforma di stampo saldamente americano. Che così riesce a intrecciare i fili delle storie dei popoli europei più prontamente dei sistemi televisivi inchiodati ai confini nazionali.

Palinsesti nazionali

In effetti le televisioni europee sono nate nell’immediato dopoguerra per allestire palinsesti a diffusione nazionale trasferendo nella tv le divisioni fra gli stati che allora contavano parecchio e mai e poi mai avrebbero consentito a condividere il controllo, politico ed economico, del medium più recente ed efficace. Il risultato, inevitabile, fu che per restare padroni a casa propria si perse il treno delle grandi imprese continentali rispetto all’industria audiovisiva americana e che soltanto questa ha continuato a godere delle economie di scala assicurate da un amplissimo e “domestico” mercato. Un sistema, quello americano, talmente forte che i prodotti realizzati sulla misura del consumatore americano si imposero ben presto al noleggio da parte delle tv nazionali d’Europa la cui sovranità era di fatto sterile perché la fiction noleggiata dagli Stati Uniti, più o meno brutta o bella, costava venti volte meno che a pretenderla da un produttore casalingo. Infine, l’arrivo delle nuove piattaforme, satellite e internet, ha reso forte ulteriormente questa posizione di dominio fornendo alla produzione americana la possibilità di arruolare direttamente il pubblico europeo, saltando l’intermediazione delle tv del luogo.

Perché in mezzo a questo globale trionfo delle imprese d’oltreatlantico Netflix investe su una fiction prodotta da un prestigioso marchio (Gaumont) di Francia che dice delle baruffe epiche di barbari e romani?

Il punto è che il modello di business degli archivi online, come li offrono Netflix e Amazon, stimola a colpi d’algoritmo ad accrescere il fattore “diversità” all’interno dell’offerta per sommare soldi e accessi di persone in tutto il mondo con molteplici gusti, lingue e abitudini. L’opposto della medietà della tv classica che per radunare audience dentro il flusso giornaliero deve ricorrere a temi e linguaggi che siano buoni un po’ per tutti, ma anche dagli standard sedimentati nella stessa produzione narrativa di massa americana.

Non a caso a sviluppare il video in piattaforma non sono stati i grandi nomi delle company di Hollywood, ma Netflix, che già noleggiava dvd anche a mezzo posta, e Amazon. Entrambi con la testa di chi rastrella clienti col modello dell’emporio come i rivenditori cinesi di arnesi e merci varie che fanno fortuna a ogni cantone. Ecco perché, appena trovato il modo di giungere direttamente sugli schermi in tutto il mondo, hanno dato il via all’approvvigionamento di prodotto creato in ogni dove così da esprimere il senso comune d’ogni popolo. Parallelamente, tutti i produttori più rilevanti già presenti nel mercato hanno allungato le radici in molteplici paesi associandosi o comprando tutte intere le case di produzione che si distinguevano nel mortorio generale del locale, con l’intendimento di estrarne idee e prodotti, oltre a sfruttare grazie a quelle teste di ponte negli stati, le agevolazioni tributarie previste per sostenere la produzione, gli autori, le maestranze.

Pare così che Netflix, secondo i dati Ampere citati dall’Economist, abbia cento produzioni attualmente in corso negli stati dell’Unione europea, vale a dire più di quante ne metta in campo un grande servizio pubblico europeo come quello francese o tedesco. È comunque meglio rispetto a quando ci limitavamo a comprare in Usa, e dovunque capitasse, telefilm a caterve per vederceli su Mediaset e Rai. Almeno, essendo appendice di grandi imprese internazionali, la nostra produzione accede alla dimensione del globale. Il limite è tuttavia che si tratta di un internazionalizzazione “top down”, dove al top ci stanno gli altri e noi dal basso ci appendiamo quando qualcuno ci si piglia. Ma si sa che chi ti piglia può anche mollarti dalla sera alla mattina, con tanti saluti agli autori alle maestranze e a numerosi e pregiati posti di lavoro.

Ecco perché non ci meravigliamo quando Delphine Ernotte, capo di France Television, invoca che i broadcaster europei, pubblici e privati, stringano alleanze per diventare grandi e globali così da imporsi nei mercati senza pagare il dazio a Netflix, Amazon e altri come loro. In poche parole le aziende pubbliche (France Television, ZDF, Rai e altre ancora) nonché le varie Mediaset d’Europa, dovrebbero integrarsi in modo da guidare l’intero processo ideativo e produttivo capace di sgorgare dalle genti che trovano raccolte nell’Unione.

I gruppi privati, Bertelsmann in Germania, TF1 in Francia e Mediaset da noi, ci stanno già provando e già chiedono di de-nazionalizzare le regole antitrust visto che la concorrenza più che in ogni singolo paese si sviluppa ormai fra grandi e globali operatori. Questo significherebbe adattarsi all’idea di avere monopoli nazionali privati simili a Mediaset, come finora soltanto l’Italia ha tollerato, e auspicare, ulteriormente, che questi a livello europeo si integrino tra loro e reggano alla pressione americana. Questione fondata, ma invero oltremodo complicata per i rapporti fra le democrazie nazionali e gli equilibri del sistema media, perché, come ben sappiamo, una tv dominante tende inevitabilmente a proteggere i ricavi concorrendo anche politicamente al governo dello stato.  

Quanto ai servizi pubblici d’Europa, l’intento di convergere per aumentare economie di scale e dimensioni dei budget produttivi già conosce e può accentuare la strada delle collaborazioni progettuali e commerciali.

Ma sia i pubblici che i privati dell’Europa resterebbero gattini ciechi se non dessero vita a piattaforme di distribuzione digitale autonome, che potrebbero, queste sì, essere il frutto di comuni, giganteschi e accelerati investimenti. Il possesso della piattaforma distributiva porta infatti con sé l’esercizio dell’algoritmo che lega e orienta il rapporto fra le scelte produttive e le reazioni del consumo. E questa, a ben guardare, è l’arma decisiva in possesso di Netflix, Amazon e altri pari a loro. Riuscire a costruire una, per cominciare, piattaforma europea capace di spingersi in ogni angolo del mondo è un’impresa titanica sotto l’aspetto politico e organizzativo. Ma non c’è dubbio che l’Europa, se vuole esistere nell’industria del racconto, deve impegnarcisi sul serio.

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