Sarà capitato anche a voi, come sostiene il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, subire un’identificazione dalla digos, cioè il reparto della polizia che si occupa di manifestazioni, movimenti politici di estrema destra e sinistra e dell’ordine pubblico negli stadi. A chi non è capitato, in fondo, esibire patente e carta d’identità e consegnarlo nelle mani dell’agente, che chiede: «Documenti, prego». Certamente sarà successo per un controllo stradale. Cosa diversa è l’identificazione selvaggia in voga con i patrioti al governo, che il motto ordine e disciplina lo usano a proprio piacimento solo quando conviene, mai per gli “amichetti” finiti in storie di malaffare.

La situazione attuale è più o meno nota. Urli al teatro “W l’Italia antifascista”? Stanne certo, verrai identificato dalla digos. Partecipi a una veglia per rendere omaggio ad Alexei Navalny, l’oppositore di Putin? Pochi dubbi, conviene presentarsi con carta d’identità in mano perché qualcuno in divisa vorrà sapere chi sei.

Un copione ripetuto più volte. È successo, nelle settimane scorse persino ad alcuni manifestanti pacifici davanti al teatro India di Roma. Alcuni mesi è accaduto lo stesso a un’attivista contro il cambiamento climatico al Festival di Mantova, colpevole di aver esposto il cartello «Ma non sentite il caldo?», solo che tra gli sponsor dell’evento c’era Eni.

In nessun caso tra quelli citati si sono verificati episodi di violenza. Si è trattato di esercizio del dissenso con modalità pacifiche. Esercizi della libertà di critica (tutelata dalla nostra Costituzione) contro regimi sanguinari, o per contestare la gestioni della cosa pubblica, o per ribadire i principi dell’antifascismo su cui si fonda la Repubblica. Chi esercita questo diritto può essere trattato da sovversivo dell’ordine pubblico? Naturalmente la risposta è scontata, ma di questi tempi è meglio ribadirla: no, non può subire questo tipo di trattamento.

Piantedosi dopo l’identificazione dei manifestanti pro Navalny a Milano si è affrettato a dire: «È capitato pure a me nella vita di essere identificato, non è un dato che comprime una qualche libertà personale». Poi ha aggiunto: «L’identificazione delle persone é una operazione che si fa normalmente nei dispositivi per il controllo del territorio». In un comunicato la Questura cerca di spegnere l’incendio parlando di «eccesso di zelo degli operatori».

Il ministro, tuttavia, omette un dettaglio che tale non è. Quando una persona è sottoposta a identificazione, gli agenti appuntano le generalità e le inviano alla centrale operativa. Qui i dati anagrafici e di contesto vengono memorizzati nel sistema informatico. Sono informazioni che ogni agente di polizia ritroverà anche a distanza di anni consultando il cosiddetto Sdi (Sistema d’Indagine del centro elaborazione dati del Viminale). Una procedura lecita, naturalmente. Che però permette di incamerare informazioni su ogni cittadino e schedarlo sulla base di una partecipazione a un evento, che sia una serata al teatro o una veglia contro Putin. Nel cervellone informatico delle forze dell’ordine e del ministero resta così una traccia delle idee politiche, dei luoghi di incontro, della cerchia di persone che frequentiamo e con cui siamo stati identificati. Lo Sdi è un curriculum segreto che contiene le volte in cui un cittadino ha fornito i documenti a un poliziotto per qualunque motivo: dall’alt al posto di blocco fino ai pernottamenti in hotel.

L’accesso a queste informazioni è limitato. Non tutti i poliziotti, carabinieri o finanzieri possono accedervi. Sicuramente possono farlo i servizi segreti. Marco Vizzardelli, che ha urlato dal loggione della Scala “W l’Italia antifascista”, troverà per molto tempo nella sua pagina Sdi l’identificazione fatta al teatro. Il motivo? «Urlava W l’Italia antifascista». Una “macchia” politica indelebile. Che durerà per sempre, perché nello spazio indefinito dello Sdi non esiste prescrizione. Piantedosi lo sa bene, per questo identificare senza reali motivi di ordine pubblico rischia di diventare una schedatura arbitraria in base alle manifestazioni che si frequentano. Mettendo, cioè, sullo stesso piano chi inneggia al Duce e chi chiede giustizia per le vittime dei regimi.

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