Al processo di beatificazione laica di Silvio Berlusconi dopo la sua morte partecipano insospettabili sacerdoti della politica e del giornalismo un tempo avversari del Cavaliere, con il quale hanno duellato, discusso. Non sappiamo a questo punto quanto quel criticarlo fosse parte di copione imposto dai ruoli ricoperti o il frutto di una contrapposizione ideale e genuina. Qualche dubbio, oggi, è lecito affiori soprattutto dopo aver letto alcune interviste ed editoriali.

La carrellata dei pentiti non può che cominciare da Massimo D’Alema. Intervistato dal Corriere della Sera ha definitivamente sdoganato l’atteggiamento intimidatorio del Cavaliere avuto nel corso di tutta la sua carriera politica nei confronti della magistratura: «Si era determinato nel nostro paese uno squilibrio nei rapporti tra poteri dello stato, questa è la verità», ha fatto ammenda D’Alema.

Altro spirito rispetto a quando il leader maximo della sinistra italiana accusava Berlusconi di narrazioni «vergognose e menzognere» raccontando «delle bugie sulle sue vicende giudiziarie che sono assai più complicate di quello che lui ha ricordato alla platea». Era la risposta all’ennesimo attacco ai pm lanciato da Berlusconi. Questa saldatura ideale sulla critica alla magistratura arriva con D’Alema ora indagato nell’inchiesta sulla vendita di armamenti alla Colombia insieme all’ex amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo.

L’erede Matteo

Sicuramente anche la lode a Silvio scritta da Matteo Renzi sul suo giornale Il Riformista ha motivazioni più nobili che il semplice desiderio di resa dei conti con la magistratura per le vicende in cui è coinvolto. Di certo Renzi a differenza di D’Alema è stato sempre più disponibile al dialogo con il Cavaliere fino a tessere da segretario del partito democratico, insieme al comune amico Denis Verdini, il patto del Nazareno. Renzi nell’editoriale rivendica di aver preferito «il terreno del confronto politico anziché quello dell’aggressione giudiziaria». Renzi si iscrive così di diritto al partito dell’Amore, in eterna lotta con il partito dei rancorosi. «Come te non c’è nessuno», è il titolo scelto da Renzi per omaggiare l’uomo dal quale in fondo ha tratto molteplici spunti per orientare la sua azione politica.

La morte di Berlusconi è diventata l’occasione di trasformare talk show e giornali in confessionali nei quali redimere i proprio peccati per aver scritto, detto o fatto qualcosa che potesse in qualche modo essere annoverato nel vocabolario dell’antiberlusconismo e quindi in opposizione al partito dell’Amore. La tendenza travolge pure il giornalismo. Paolo Mieli, da direttore del Corriere della Sera, nel 1994, aveva provocato la crisi del primo governo Berlusconi con la pubblicazione della notizia “Berlusconi indagato” dalla procura di Milano in uno dei filoni di Tangentopoli. Uno scoop ormai storia del giornalismo.

«Lo abbiamo fatto, abbiamo la coscienza a posto, però qualcosa non andava, e prima o poi questo qualcosa io lo scoprirò», è il mea culpa a metà di Mieli in diretta su La7, nello studio con Enrico Mentana e in collegamento l’editore di entrambi Urbano Cairo, il quale sul giornale di sua proprietà ha descritto Berlusconi come il un «maestro straordinario», «rendeva tutti i sogni realtà». Un grande maestro, a tal punto da riuscire a trasformare conflitti di interesse in consuetudini, prescrizioni in assoluzioni, la condanna in una persecuzione, i festini hard in cene eleganti, un complice dei mafiosi come il fidato Marcello Dell’Utri in un martire e un mafioso del calibro di Vittorio Mangano in un eroe per la sua caparbia resistenza a non pentirsi. Elogio dell’omertà.

L’Italia non può che andarne fiera. Vietato ricordare i fatti, le ombre, le inchieste, le distorsioni democratiche, la catastrofe prodotta dai suoi governi. Le dirette dei funerali, da La7 a Sky fino a Rai 1, hanno seguito questo protocollo dettato da chi vuole cancellare la storia nel nome di una pacificazione artefatta, fondata sull’omissione.

© Riproduzione riservata