È difficile riconoscere i grandi cambiamenti economici mentre avvengono: solo col tempo appiano chiari. La moneta unica in Europa, assieme alla globalizzazione, è stato uno di quelli che ha maggiormente caratterizzato l’ultimo ventennio.

Al momento della sua costituzione, molti economisti pensavano che l’euro avesse un “difetto di costruzione”: l’assenza di una politica fiscale comune che, nel caso di shock reali asimmetrici - eventi imprevisti che colpiscono la struttura produttiva di un singolo paese dell’Eurozona, o le caratteristiche della sua domanda -, avrebbe reso la politica monetaria unica inefficace.

La crisi mondiale del 2008 e quella del debito pubblico in Europa del 2011, con il default della Grecia, hanno rafforzato in molti la convinzione di una sua intrinseca debolezza, esiziale in caso di shock reali asimmetrici.

Oggi invece constatiamo che l’euro è sopravvissuto a ben due di questi shock nell’arco di tre anni: il Covid e la crisi energetica con la guerra in Ucraina.

Ciononostante l’appeal dell’euro è aumentato continuando ad attrarre nuove nazioni, ultima la Croazia, e con la probabile nuove entrata della Bulgaria.

Evidenza che l’euro viene sempre più percepito come irreversibile, nonostante le nubi minacciose all’orizzonte: inflazione elevata; rischio di recessione; la guerra in Ucraina e le tensioni per Taiwan; la crisi energetica; i danni del riscaldamento climatico e i costi della transizione ambientale. Possiamo dire che a 23 anni, l’età in cui ci si laurea, l’euro ha brillantemente superato l’esame finale per la tesi.

Dopo gli shock

Quanto lo shock della pandemia sia stato asimmetrico nell’Eurozona, e con gravi conseguenze sull’economia reale, è provato dalle grandi differenze nel tasso di mortalità: dai 307 morti ogni 100.000 abitanti in Italia, ai 197 della Germania, con un diverso impatto sulle strutture sanitarie e sui settori maggiormente colpiti, quali commercio, trasporti e tempo libero.

Altrettanto asimmetrico e reale è lo shock energetico, per via della diversità delle fonti di approvvigionamento dei vari paesi e dell’intensità energetica della loro struttura produttiva: così l’inflazione è del 5,7 e 5,9 per cento in Spagna e Francia, che dipendono prevalentemente da Lng e nucleare, contro l’8,6 della Germania che ha riattivato il carbone, l’11,6 dell’Italia, il 15 di Slovacchia, fino al 20 dei paesi Baltici, più dipendenti dalla Russia.

Alcuni risultati sono dovuti al caso, come la stagione invernale per ora straordinariamente mite, con lo stoccaggio di gas all’85 per cento, rispetto al 70 normale in questo periodo dell’anno; o a elementi esogeni, come la rapidità con la quale l’industria americana ha saputo sviluppare e produrre in quantità inimmaginabili i vaccini mRNA, l’arma vincente contro il Covid.

Ciononostante, l’euro ha resistito e appare solido perché i vantaggi della moneta unica sono evidenti in quanto assicura tassi di interesse a lungo termine molto più bassi, a parità di inflazione, di quelli possibili con una moneta nazionale: per esempio, Slovacchia, Lituania, e Slovenia hanno tassi a 10 anni rispettivamente del 3, 2,9 e 3,5 per cento, mentre le confinanti Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che non hanno adottato la moneta unica, del 6,8, 9 e 5 per cento. Né le svalutazioni assicurano i vantaggi competitivi di una volta data l’organizzazione della produzione tramite le filiere produttive nel mondo.

Dietro la forza dell’euro

Diversi elementi possono spiegare il rafforzamento dell’euro. La pandemia ha fornito l’occasione per superare il tabù della mutualizzazione del debito, con i primi titoli emessi dalla Commissione (finanziano il Pnrr).

E l’esigenza di tutelare le fasce deboli e alcune imprese particolarmente colpite dalla crisi energetica ha archiviato austerità e pareggio di bilancio, anche se si è proceduto in ordine sparso.

C’è una proposta per riformare il Patto di Stabilità, non più basandolo su meccaniche metriche quantitative (3 per cento di deficit, 60 per cento di debito), ma tenendo conto delle diverse caratteristiche delle economie dell’Area.

È mancata una risposta comune alla crisi energetica, ma è bastato che l’Europa si muovesse in modo faticosamente coordinato per ottenere risultati importanti: la messa al bando delle forniture di petrolio russo e il meccanismo del cap hanno funzionato, visto che il greggio degli Urali viene scambiato oggi a circa 48 dollari il barile, contro gli oltre 80 del Brent; e l’annuncio di un intervento per evitare i picchi nel prezzo del gas, anche se con un meccanismo poco efficiente, è bastato a eliminare l’incertezza dal mercato, contribuendo a far crollare il prezzo del future sotto i livelli precedenti all’invasione dell’Ucraina.

Illustration photo - EURO banknote, EU currency, money bills, banknote, The ruble, Russian rouble, US Dollar, The British pound, (GPB) Great Britain, Polish zloty, Zloty, Poland, Ukrainian hryvnia, hryvnya, Czech crowns, CZK. Photo/Petr Svancara (CTK via AP Images)

Il grande piano di incentivi alle rinnovabili tramite i crediti di imposta dell’amministrazione Biden, che ha fatto degli Usa il magnete per gli investimenti verdi delle imprese europee, costringe l’Europa a ripensare integralmente la politica sugli aiuti di Stato e ragionare su un progetto comune, per evitare che il vero Green Deal lo facciano americani e cinesi.

Siamo lontani da una politica fiscale comune, ma sono passi che, faticosamente, vanno nella direzione giusta.

Ho già affermato che il Mes va ratificato subito dall’Italia, anche se l’istituzione è ormai superata e inadeguata agli scopi che si prefiggeva, anche perché nel frattempo la Bce ha acquisito credibilità dopo il famoso “whatever it takes”, e oggi le basta annunciare il programma di interventi TPI (Transmission Protection Instrument), anche senza specificarne i dettagli, per evitare che lo shock energetico causi una frammentazione dei mercati finanziari dell’Eurozona e nuove crisi del debito; almeno per ora.

Dietro la maggiore solidità dell’euro c’è anche la costruzione di un’infrastruttura efficiente per il sistema dei pagamenti istantanei in euro per le istituzioni (Target 2), ora esteso agli individui (Tips), e per il regolamento delle operazioni in titoli (Target2-securities), a cui ha dato un significativo contributo la Banca d’Italia.

Quello che manca è un rapido lancio dell’euro digitale, che sfrutterebbe la tecnologia delle cryptovalute, ma con la garanzia della Banca Centrale: allargandone l’utilizzo e facilitando le transazioni digitali, l’euro uscirebbe rafforzato.

Lezioni per Meloni

Il governo Italiano potrebbe trarre vantaggio dal rafforzamento dell’euro se solo si riposizionasse rispetto all’Europa. Dovrebbe evitare di ratificare il Mes obtorto collo, ma sfruttare l’occasione per rendersi parte attiva nella proposta, già presentata da altri, di trasformarlo in un’agenzia del debito pubblico comune: in fondo, i titoli emessi dal Mes costituiscono già una mutualizzazione, in quanto garantiti dal capitale versato da tutti i paesi.

Invece di criticare la Bce per l’aumento dei tassi, pensare alle politiche che possono contribuire a ridurre l’inflazione interna, promuovendo la concorrenza, rivedendo regimi tariffari e prezzi regolamentati, eliminando i sussidi inutili, promuovendo l’efficienza delle imprese locali nei servizi di pubblica utilità. Invece di vedere nel saldo negativo di Target2 una minaccia per l’Italia (la Banca d’Italia ha meno euro di quanti ne ha emessi, l’opposto della Bundesbank), capire che è anche conseguenza degli interventi della Bce a nostro favore, oltre che segno di una bassa integrazione e attrattiva del nostro sistema finanziario e mercato dei capitali, e cosa fare per miglioralo.

Invece di negoziare sconti sul Pnrr, cercare di sconfiggere il pregiudizio dell’Italia spendacciona, argomento principe di chi non vuole più eurobond.

E, invece di occuparsi solo delle nomine, delegando poi alle imprese a partecipazione pubblica le scelte di politica energetica, rimpossessarsene con un ruolo propositivo per un progetto unico europeo affinché l’Europa, dopo quella tecnologica, non perda anche la rivoluzione ambientale.

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