Subito dopo l’approvazione della direttiva sul salario minimo europeo in molti, soprattutto nel centrodestra, hanno cercato di minimizzare il valore e la portata di questa riforma europea. Da più parti si sono levate una serie di valutazioni e analisi che non solo dimostrano di non conoscere il testo stesso della direttiva, ma addirittura di ignorare i principi basilari della legislazione europea.

L’articolo 153 paragrafo 5 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea esclude la fissazione dei salari a livello europeo, quindi chi oggi canta vittoria perché l’Europa non obbliga l’Italia ad approvare il salario minimo scopre l’acqua calda. Nessuno si aspettava a Bruxelles un esito del genere semplicemente perché era impossibile. La vera novità europea, invece, e questa è la prima volta che accade in oltre 70 anni di integrazione, consiste nella definizione di criteri comuni per assicurare l’adeguatezza, l’equità e la dignità dei salari.

I criteri

Fra questi criteri c’è il divieto di retribuzioni inferiori al 50 per cento del salario medio nazionale e del 60 per cento del salario mediano lordo, parametri OCSE riconosciuti a livello internazionale. Il salario minimo, inoltre, deve essere al di sopra della soglia di dignità valutata in funzione all’andamento dell’inflazione. Questi parametri non sono aleatori, ma sono gli obiettivi che l’Italia entro due anni deve raggiungere in maniera vincolante, e non facoltativa, perché così prevedono i Trattati europei. Qualora l’Italia non recepisse la direttiva nel modo corretto andrebbe inevitabilmente incontro a una procedura di infrazione da parte della Corte di Giustizia Europea. Sarebbe quantomeno paradossale per l’Italia pagare una multa europea perché i suoi cittadini hanno salari troppo bassi.

La direttiva stabilisce inoltre un livello minimo di copertura della contrattazione collettiva fissato all’80 per cento Attenzione però, questo criterio non può essere la scusa per non applicare i criteri previsti nella direttiva. Se infatti in Svezia o Danimarca la contrattazione collettiva funziona e garantisce salari dignitosi, in Italia non è così. Basti pensare che negli ultimi 10 anni i contratti collettivi nazionali sono quasi raddoppiati passando da 551 a 992 e di questi oltre 622 sono scaduti e circa 300 sono considerati contratti pirata in quanto sono sottoscritti da organizzazioni che non fanno parte del Cnel e non sono quindi rappresentative del mondo del lavoro. L’Italia dunque supera la soglia dell’80 per cento dei lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva solo sulla carta. Nella realtà proliferano contratti scaduti e contratti civetta che non possono essere considerati in linea con i principi della direttiva semplicemente perché non rispettano i criteri di adeguatezza dei salari.

I contratti pirata, per esempio, fissano condizioni salariali e lavorative indecenti a dispetto delle più elementari norme del diritto del lavoro. Non a caso il nostro Paese è l’unico dell’area Ocse in cui il salario annuale medio si è addirittura ridotto negli ultimi trenta anni, con un -2,9 per cento a fronte di un +31 per cento della Francia e un +33 per cento della Germania.

Gli effetti sulle imprese

Il salario minimo fa bene anche alle imprese. Un altro obiettivo della direttiva infatti è quello di stroncare la concorrenza sleale nel mercato interno basata sul dumping salariale e che alimenta il deprecabile fenomeno delle delocalizzazioni delle attività produttive nell’Est Europa. Anche per questo in tanti paesi, come la Francia, le organizzazioni datoriali hanno sostenuto con forza questa direttiva. Peccato che in Italia non ci sia stata finora la stessa lungimiranza.

A questo punto si pone il duplice problema di come rinnovare a tempo di record centinaia di contratti collettivi e come spazzare via la giungla di contratti pirata, proprio come la direttiva chiede. Noi del M5s una proposta ce l’abbiamo da tempo ed è quella del salario minimo, proprio come avviene in quasi tutti i paesi europei. E non è casuale che i 9 euro all’ora da noi proposti siano esattamente in linea con i nuovi parametri europei.

Sulla base di tutte queste riflessioni è evidente che se il governo italiano non vuole rischiare una multa europea, e se soprattutto non vuole tradire le aspettative di oltre 4 milioni cittadini che percepiscono stipendi da fame, deve recepire alla lettera e quanto prima questa direttiva. La sfida dell’Italia è quella di aggiornare il proprio sistema di relazioni industriali e contrattazione collettiva, adeguandolo alle sfide di un paese davvero moderno e proiettato al futuro, e ripartendo dalla dignità del lavoro e dei lavoratori.

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