Dopo il pogrom infame di Hamas che ha aperto l’inferno alla reazione di Benjamin Netanyahu con migliaia di innocenti a pagare, torna il senso delle parole di Liliana Segre, «resto una donna di pace perché l’odio genera odio e ho scelto di non odiare».

Senti chi vive a Tel Aviv o sopravvive nella Striscia e capisci la profondità di un messaggio carico di tristezza. Ascolti passioni cupe tra due fronti segnati dall’odio. Ora è guerra con i riservisti figli della modernità a contrastare gente giovane, povera, che pensa imbracciando un kalashnikov di vincere un futuro buio. E allora ripenso al messaggio di Yuval Harari: «Da una parte e dall’altra siamo troppo presi, abbiate voi la lucida forza di riflettere e agire».

Noi, che abbiamo goduto la pace e oggi vaghiamo sonnambuli come se la memoria avesse ceduto al ricatto di un presente malato. Noi, quell’Europa divisa che ha già perso l’anima nel Mediterraneo e nella rimozione delle prigioni libiche, noi quell’Italia che a volte nella politica estera ha saputo risvegliare la sua autonomia e oggi è guidata da una destra pericolosa. Si dice che la politica sia l’arte del possibile. Invece la politica richiede che leadership o semplici movimenti cerchino l’impossibile.

Lo hanno fatto Kennedy e Krusciov nella crisi di Cuba o Giovanni XXIII con la Pacem in terris, o i confinati dal fascismo a Ventotene fino all’urlo dei giovani a Genova prima che la brutalità della destra li colpisse. Che siano artigiani, architetti, diplomatici o le piazze riempite, la parola pace è l’opposto di una rincorsa al riarmo, della spogliazione dell’ambiente, di un linguaggio solo di forza.

Oggi interessi, profitti, illegalità minano la democrazia. Riconosco la preziosità del pacifismo integrale, ma so che i diritti umani sono avanzati attraverso lotte, difese e asprezze. Queste sono le inquietudini, i dilemmi della politica. Quando dire sì e no? Domande e risposte complicate come dopo l’abbandono dell’Afghanistan.

O adesso con l’Ucraina che non va lasciata sola perché la sua libertà è la nostra. L’anno prossimo settantasei paesi andranno al voto. Avverrà in Russia dove Putin vorrebbe un plebiscito, in quell’Iran dove si tortura, e negli Stati Uniti dove il rischio investirà l’intero Occidente a conferma che nessuna Nato può sostituire la politica. Sono in corso 169 tra conflitti e guerre.

Torture, violenza, fame sono mille volte più diffusi di una ricchezza nelle mani di pochi. Oggi significa chiedere un cessate il fuoco umanitario a Gaza, contrastare l’antisemitismo e i rischi di islamofobia, disegnare nell’attualità la strada di due popoli in due Stati, convocare una conferenza internazionale, ipotizzare una forza di interposizione. Significa stare con l’Ucraina anche con la ricerca di un compromesso.

Significa unire chi si rende protagonista di una nuova Onu, del disarmo nucleare, di una Helsinki 2, del dialogo interreligioso. Di questo abbiamo parlato in una giornata intensa a Milano e si parlerà domani e sabato a Roma. Domande che la destra non si fa. Loro non sanno che i diritti umani sono la morale della storia e che il primo di quei diritti è la pace.

Questa parola contiene tante cose, ma soprattutto in quel concetto ci sono i corpi. I corpi simbolo di grandezze e miserie della modernità. I corpi curati dalla scienza e l’idolatria dei corpi come perfezione. I corpi dei bambini denutriti di cibo e quelli che non si nutrono perché hanno fame di affetto.

I corpi sulla spiaggia di Lampedusa o nelle carceri. I corpi del pogrom dei kibbutz e quelli straziati nella Striscia, i corpi degli ostaggi. Ma dentro questa guerra sui corpi ce n’è un’altra – la più simbolica e terribile – lo stupro sulle donne, un femminicidio di massa. Il corpo delle donne come scalpo, come possesso e sfregio di un popolo e di ogni libertà. E i corpi di donne che si ribellano e in Iran gettano il velo, si tagliano una ciocca di capelli, sono in carcere perché la storia possa cambiare. I corpi scesi in piazza il 25 novembre.

Corpi che con tutta l’anima vorrebbero una pace per sé e per il mondo. Marco Damilano raccontava di un altro 7 dicembre, Sant’Ambrogio, quando Carlo Maria Martini teneva il suo discorso alla città e non solo. Era il 2011, dopo l’attentato alle Torri Gemelle e rivolgeva l’appello ad interrogarsi a non credenti e credenti sui doveri dell’Occidente verso la convivenza e verso sé stesso. Il cardinale, una volta lasciata la cattedra, sarebbe andato a Gerusalemme. Ecco, a una Gerusalemme di convivenza dovremo arrivare se vogliamo credere ancora che si possa un giorno “uscir a rivedere le stelle”.

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