Qualche giorno fa mia figlia mi ha raccontato che a scuola è arrivato un bambino nuovo. Un bambino russo. È una scuola con alunni di varie nazionalità, frequentata da espatriati (non viviamo in Italia), dove essere stranieri è normale. Ma l’arrivo del bambino russo ha colpito l’immaginazione degli altri in modo particolare, per via della guerra.

Il risultato è una sensazione di curiosità e mistero che percorre le aule. A scuola ci sono già un paio di bambini russi, ma sono lì da prima della guerra, e in qualche modo non è la stessa cosa. C’è anche un bambino metà russo e metà ucraino (una figura che gode di popolarità in classe). È proprio a lui che gli altri chiedono, all’intervallo, di andare dal bambino nuovo per dirgli, in russo, «ciao».

Integrazione vs appartenenza

Non è una storia con un finale, questa, è solo un aneddoto. Non so dirvi se sarà mai una storia. È possibile che il bambino nuovo diventi in fretta come tutti gli altri, parte del paesaggio scolastico. Siamo portati a pensare che, nel caso in cui questo accada, tutto sarà risolto.

Ma cosa significa diventare come gli altri? I bambini certe faccende le percepiscono subito, hanno la necessità istintiva di capire cosa vuol dire essere diversi: il problema dell’essere uguali o diversi è un ingrediente base della vita sin dall’infanzia.

Le parole più usate quando si parla di questi argomenti sono, di solito, “integrazione” e “appartenenza”. Due parole che sembrano elementi dello stesso percorso: prima ti integri, poi forse inizi ad appartenere. In realtà sono due concetti distanti, e la questione non è solo, per così dire, politica.

Integrarsi, o perlomeno adattarsi, significa trovarsi in un certo luogo o situazione, in una certa comunità, e sforzarsi di diventare quello che si deve diventare per essere accettati. L’integrazione richiede dunque un impegno da parte di chi si deve integrare.

A questa persona è richiesto di perdere alcune caratteristiche della propria identità che sarebbero in contrasto col nuovo ambiente, e di assumerne altre che invece sono considerate necessarie. L’integrazione richiede anche che l’ambiente sia più o meno disposto ad accettare che questo processo avvenga: ci saranno ambienti totalmente chiusi, in cui l’integrazione non è permessa e la persona “altra” viene rifiutata a prescindere da qualsiasi sforzo faccia, e ambienti che invece “promuovono l’integrazione”, aiutando in modo attivo la persona ad adattarsi e a modificarsi.

Dietro questa meccanica c’è una grande domanda residua, e cioè cosa sia, poi, l’identità. Ma comunque al termine di questo processo di solito si inizia a parlare di appartenenza.

L’appartenenza così concepita è un dato di fatto oppure un risultato. È un dato di fatto per chi è nato all’interno dell’ambiente, e dunque va bene così com’è. Ed è il risultato dell’integrazione per chi viene da fuori. Basta così? O è una visione incompleta? In realtà l’appartenenza può essere molto di più.

Appartenere significa trovarsi in un ambiente ed essere semplicemente quello che siamo. Questo non vuol dire per forza essere nati nell’ambiente, o essersi integrati. Possiamo provare un senso di appartenenza anzitutto a partire da un atto di coraggio, quando decidiamo di presentarci agli altri per quello che siamo, rischiando di non essere accettati, mettendoci, intenzionalmente, nelle condizioni di farci del male allo scopo di scoprire cosa accadrà.

Comunità non identitarie

È un coraggio innaturale, ma il coraggio spesso è innaturale, perché richiede il superamento della vergogna e della paura. Affinché il senso di appartenenza funzioni, cioè scatti, è necessario che l’ambiente – la comunità – a sua volta compia un atto di coraggio e scelga di costruire con noi qualcosa, decida di coinvolgerci nei suoi sogni e nei suoi progetti, indipendentemente dalla nostra dissomiglianza.

Questo significa che la comunità deve essere disposta a non mettere l’identità al primo posto. E non si tratta di un processo semplice, ma di approssimazioni successive, e il rischio di insuccesso è presente, si attraversano fasi di vulnerabilità, sia individuale, sia di sistema.

Esiste il rischio che qualcuno a un certo punto, in silenzio, si approfitti di questa vulnerabilità. Il risultato del processo però non è, come a volte si sente dire, una comunità debole. Una comunità che nasca da una sequenza di atti di coraggio, e che sia dunque fondata sul coraggio e non sull’identità, non è debole, è solo difficile da creare, ma una volta creata è forte. Nel mio sistema di valori il coraggio sta al di sopra dell’identità.

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