Gli emendamenti proposti nei giorni scorsi dal governo al (proprio) disegno di legge di revisione costituzionale sull’elezione diretta del presidente del Consiglio ne aggravano le incongruenze, le contraddizioni e le oscurità.

Tra questi una modifica finora sottovalutata è quella proposta all’articolo 88 della Costituzione. Questa norma, al fine di impedire che l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica possa essere condizionata dal potere – o anche solo dalla minaccia – di uno scioglimento delle camere, prevede oggi che il presidente della Repubblica non possa esercitare tale facoltà di scioglimento negli ultimi sei mesi del suo mandato «salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura».

Ebbene, l’emendamento del governo sostituisce questa eccezione con una formula ben più ambigua: «Salvo che lo scioglimento costituisca atto dovuto».

Lo scopo delle modifiche

Lo scopo della modifica proposta dal governo dovrebbe essere quello di ricomprendere, nelle eccezioni al divieto di scioglimento durante il semestre bianco, le ipotesi di automatico scioglimento delle camere previste nel nuovo art. 94 Cost.: quando il presidente del Consiglio non ottenga la fiducia delle camere e nel caso le camere gli revochino la fiducia con mozione motivata.

È una modifica apparentemente marginale all’art. 88 Cost. ma in realtà pericolosa: il fatto che l’atto dovuto dello scioglimento anticipato si estenda anche all’ipotesi di dimissioni volontarie tanto del presidente del Consiglio eletto che di quello eventualmente subentrante previste all’art. 94 consegna di fatto le chiavi dell’elezione del presidente della Repubblica nelle mani del presidente del Consiglio, che potrà ottenere dal parlamento l’elezione di un capo dello Stato suo fiduciario agitando lo spettro delle sue dimissioni e del conseguente scioglimento anticipato delle Camere.

Non siamo qui di fronte al semplice indebolimento dei poteri del presidente della Repubblica, che pure ha costituito in questi mesi una delle critiche principali alla riforma. La realtà che ci propongono gli apprendisti riformatori del governo Meloni è più insidiosa: un capo dello Stato scelto direttamente dal presidente del Consiglio e a lui politicamente subordinato, eletto da un parlamento ostaggio della minaccia di un suo scioglimento.

Equilibri incrinati

Si potrebbe dire in fondo che un presidente del Consiglio con una maggioranza blindata esprimerà il presidente comunque. Si dimentica però che nella storia delle elezioni del presidente della Repubblica, per la segretezza del voto, le alte maggioranze richieste, la necessità di esprimere una personalità di alto profilo, fuori dai giochi politici e potenzialmente garante di tutti, anche le maggioranze più forti hanno avuto difficoltà ad imporre il proprio nome.

Così accadrebbe anche con un premier che non può con le proprie dimissioni determinare lo scioglimento delle camere alla vigilia delle elezioni del capo dello Stato. Ovviamente tutto cambia se il presidente del Consiglio può minacciare la sua maggioranza (ma in fondo anche parecchi parlamentari di opposizione) che se non votano chi vuole lui si va tutti a casa.

In questo scenario gli equilibri costituzionali verrebbero incrinati. Il presidente della Repubblica non sarebbe più il garante della Costituzione, ma un organo di parte, fedele notaio delle volontà del presidente del Consiglio, cui deve la sua elezione.

Il coinvolgimento del capo dello Stato nell’indirizzo politico definito dal premier condizionerebbe perfino la nomina presidenziale dei cinque giudici costituzionali, finendo per attentare all’autonomia della Corte, che fonda il corretto esercizio delle sue funzioni proprio sull’indipendenza dall’esecutivo e dalle contingenti maggioranze parlamentari.

In una forma di governo parlamentare come quella prescritta dalla Costituzione repubblicana, l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo finisce per insidiare in primo luogo l’autonomia del presidente della Repubblica e della Corte costituzionale.

Una volta aperto il vaso di Pandora dell’elezione diretta diventa impossibile richiuderlo senza che il presidente plebiscitato dal corpo elettorale attragga nella sua orbita tutti gli altri poteri.

Il progetto di premierato, pure riscritto dai maldestri emendamenti del governo, finisce così per attentare al ruolo e all’indipendenza di quegli organi costituzionali che delle libertà e dei diritti delle persone sono gli ultimi garanti, anche contro i poteri dell’esecutivo e delle maggioranze parlamentari.

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