Uno spettro si aggira nel dibattito pubblico italiano: la “follia” o “furia” o “nuova barbarie” di quella che da qualche tempo circola con il nome di “cancel culture”.

L’ultimo episodio a far discutere è stata la presunta censura imposta al bacio “non consensuale” del principe a Biancaneve – in realtà, come si è presto compreso, una fake news. Ma prima c’è stato il caso di Omero eliminato dai programmi in quanto razzista; quello della cancellazione di Mozart dagli studi musicali a Oxford per contrastare l’egemonia bianca; quello di Via col vento, “ritirato dal catalogo di HBO” per aver romanticizzato la schiavitù.

Ognuno di questi episodi è nato da notizie distorte, sovradimensionate o decontestualizzate, come mostra l’attenta ricostruzione di Fabio Avallone su Valigia Blu. Eppure, e nonostante il riferimento a vicende lontane da noi, si è affermata anche qui la convinzione che stiamo combattendo una battaglia culturale che ha al centro la libertà d’espressione.  

La destra mondiale surfa abilmente sull’onda di un panico da cancellazione che contribuisce attivamente a costruire. «Di censura in censura, si arriva al ridicolo. Viva la Libertà, viva il Principe Azzurro e Biancaneve»: così Salvini sull’ultimo casus belli.

Ma anche intellettuali progressisti insorgono, denunciano chi vorrebbe fare tabula rasa della cultura, paventano la fine della libertà e della sperimentazione artistica. Soprattutto, temono che la critica di personaggi, opere, idee possa condurre a provvedimenti di sanzione frettolosa e sproporzionata, come avvenuto in alcuni casi – invero non molti – nel mondo anglofono.

Il direttore del Tg La7 Enrico Mentana ha rivendicato il «coraggio» di dire che «per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi dei libri del nazismo». Non è affatto chiaro, però, quali nuovi roghi, e di quali libri, possano evocare quel passato infausto. Sta davvero paragonando la protesta che nasce dal basso contro idee, persone e simboli della cultura dominante a un regime totalitario?

O forse sotto accusa sono le istituzioni culturali, troppo inclini a cedere alla protesta della piazza (virtuale) e a bandire le idee scomode. Ma quali istituzioni? E dove? Perché l’Italia è il paese in cui, se parliamo di saperi, il canone letterario resta saldamente maschile e occidentale. Se parliamo di idee, è il paese in cui si può dire che la vittima di un presunto stupro sia in realtà una ragazza pentita che sporge denuncia per «sgombrare la sua coscienza fragile femminile». E si può dirlo dalla posizione piuttosto comoda di editorialista celebre di una testata nazionale. A che gioco, allora, stiamo giocando?

Quella in corso è in realtà l’ultima versione della contesa che è in corso da decenni intorno al linguaggio inclusivo e ai limiti della libertà d’espressione. Ovvero di quella che la destra (insieme a una parte della sinistra) denuncia come “ossessione”, “follia”, “dogma”, “tabù”, persino “dittatura” del politicamente corretto.

Il linguista Federico Faloppa, in un articolo sul tema, ricostruisce la storia della formula, nata negli ambienti della nuova sinistra americana e fatta propria dalla destra conservatrice. Dalla metà degli anni ottanta, politically correct è divenuto sinonimo di dittatura delle idee liberal. Nel 1990 sul New York Times, Richard Bernstein suonava l’allarme sul conformismo dell’accademia: «un aggregato di opinioni in materia di razza, ecologia, femminismo, cultura e politica estera definisce una specie di atteggiamento ‘corretto’ verso i problemi del mondo, una sorta di ideologia non ufficiale dell'università».

Come spiega Faloppa, si è trattato di un’operazione studiata e coordinata, mirante alla costruzione di una contro-egemonia culturale per la destra conservatrice, che proprio negli anni ottanta e i nei primi novanta, con le presidenze Reagan e Bush, cercava una nuova legittimazione. Grazie all’attacco contro il politically correct, un’élite cresciuta nelle migliori università poté posare come anti-élite, e intanto spostare i conflitti insorgenti in campo economico e sociale, a causa della globalizzazione neoliberale, sul fronte della battaglia delle idee. Riuscì, in questo modo, anche a indurre la percezione di una progressiva distanza tra gli intellettuali liberal e la gente comune.

Oggi, i frutti di questa strategia si dispiegano ampiamente sotto i nostri occhi. Con l’aggiunta di una carica polemica specifica evocata dalla “cancel culture”, che contiene il riferimento all’atto di eliminare ciò che non piace.

In realtà, come è ovvio, le proteste che nascono dalle battaglie del mondo femminista, antirazzista, Lgbt, contro l’oppressione sistemica che ancora colpisce donne e minoranze, è una protesta dei “senza potere”, cui non è possibile attribuire la capacità di cancellare alcunché. Il vero obiettivo dell’indignazione è la maggiore sensibilità di istituzioni culturali e forze politiche che, travolte dalla forza del #MeToo o di Black Lives Matter, hanno aperto la porta al cambiamento.

Il tema, dunque, non è il linguaggio, né sono Omero, Mozart o Biancaneve. La lotta è per l’egemonia culturale, per il potere di definire i termini e i limiti dell’inclusione democratica delle differenze. 

Le idee femministe, antirazziste e antiomofobiche, tanto vituperate nelle campagne contro il politically correct, hanno prodotto negli ultimi decenni effetti di innegabile avanzamento sul piano dei diritti e della cultura dell’inclusione. Gli sforzi compiuti, anche in Italia, per rendere il linguaggio maggiormente rispettoso delle differenze, hanno contribuito ad avvicinare le forme della rappresentazione – politica, mediatica, culturale – alla realtà di una società sempre più plurale.

Tuttavia, ciò non ha fatto che alzare la posta, offrendo al pensiero conservatore nuovi e più urgenti motivi per rifiutare i vincoli della “correttezza”, in nome di una “libertà di espressione” intesa come diritto di offendere e umiliare, come pretesa individualistica di affermazione del sé contro i limiti imposti da norme di inclusione e rispetto.

Chi gioca con il linguaggio “scorretto”, come manifestazione di franchezza contro l’ipocrisia, di autenticità contro il conformismo, lo fa quasi sempre da una posizione di potere, cioè dalla posizione di chi appartiene a maggioranze culturali e gruppi dominanti. La pretesa “libertà” si può leggere, perciò, anche come la difesa di un privilegio epistemico e linguistico, oltre che sociale e politico.

Come scrive Peter Sloterdijk nel suo libro Falsa coscienza, il fenomeno che chiamiamo populismo «non è, da un certo punto di vista, altro che una reazione (nel senso quasi chimico o allergologico del termine) alla presunta suscettibilità di minoranze chiassose e ancor più a regole percepite come una permanente censura linguistica esercitata con metodi inquisitori». La risposta è «una sfrontatezza che ricorda gli anni più bui attraversati dal continente europeo nel secolo scorso».

Di fronte a questo, non può bastare fare il (pur meritorio) debunking delle false notizie di “cancellazioni”, né dismettere la questione come una montatura (“la cancel culture non esiste”). Bisogna riconoscere che il conflitto è reale. Ciò che è in atto è una rinegoziazione dei confini di ciò che è consentito, legato all’ampliamento dell’orizzonte democratico. Un processo a cui le voci dei gruppi subalterni – specialmente, al loro interno, dei più giovani – pretendono di partecipare, anche grazie all’espressione che consentono i social media.

Non si tratta di considerare giusta ogni richiesta di rimozione o boicottaggio che proviene dalla rete, ma invece di considerare legittima la domanda, cioè la critica che investe una cultura come quella occidentale che – lo si voglia o no – affonda le radici non solo nello splendore del pensiero e dell’arte ma anche nello schiavismo, nel patriarcato, nella cancellazione (questa sì) di larghe componenti della società.

E allora dobbiamo dimenticare Omero? Certo che no. Piuttosto, accogliamo lo stimolo per arricchire i nostri strumenti critici. 

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