Prima di Natale viene l’Avvento, un tempo liturgico tra i più dimenticati e che tuttavia, davanti agli scenari complicati del pianeta, conserva tutto il suo senso. Avvento è ciò che si aspetta, un tempo di attesa. Cosa aspettare? In un mondo in guerra, vuoto di attese e di speranze, sembra che non ci sia nulla da attendere.

Lo spirito collettivo è pessimista e il futuro viene percepito come una minaccia. Sono in molti a non attendere più nulla di buono. Eppure questo modo di pensare e di vivere, fatto solo di concentrazione su di sé e di autodifesa, lascia sempre insoddisfatti.

La mentalità corrente è presentista (vale solo ciò che capita nell’attimo presente) e vittimista (si pensa soltanto al proprio dramma personale). Sembra ragionevole, ma provoca sofferenza: vivere solo per sé stessi isola ed emargina, come accade anche ai paesi quando si rinchiudono spaventati dentro le proprie frontiere.

L’avvento ci ricorda, al contrario, che si può sempre credere in qualcosa di nuovo e di migliore. Non si può vivere bene restando inchiodati e spaventati da tutto e tutti. Nemmeno il più forte può vivere bene nel mondo globale senza ideali e speranze, senza fidarsi almeno un po’. Un’esistenza di diffidenze e di paure può portare alla follia.

L’Avvento ricorda a ognuno e all’umanità intera che si possono fare scelte per uscire dal pessimismo e dalla solitudine. Per i credenti è il senso della «chiesa in uscita» profetizzata da papa Francesco: un’avventura fuori dalle istituzioni e dal comfort che protegge.

Anche per i non credenti l’Avvento può avere un senso: andare oltre sé, verso l’altro, pure se ciò comporta fatica. Far entrare gli altri dentro al proprio orizzonte rappresenta una sfida, ma apre a nuovi traguardi: è una legge della natura e, se si vuole, anche dell’economia. Senza rischiare un po’ di ciò che già si possiede non si ottiene nulla.

Tutti possediamo qualcosa su cui puntare, non fosse altro che il nostro tempo. La disumanità attorno che ci atterrisce è figlia dell’isolamento che diviene ostilità e della paura che si trasforma in odio. Ciò vale per i femminicidi come per la guerra vera e propria: il frutto dell’inimicizia è sempre la morte.

Da attendere c’è innanzi tutto la pace. Quanto la aspettano coloro che sono in guerra! Come coloro che vedono il proprio paese fatto a pezzi e travolto da politiche d’odio senza prospettiva. Non dovremmo attendere con loro? Non possiamo rinunciare alla speranza della pace solo in nome del cinismo (“tanto non cambia mai nulla!”) o della distanza (“non è affare mio, sono lontani”).

La pace non è impossibile, va sperata e costruita. Si tratta di un comportamento, di uno stile, una scelta di vita. La civiltà della pace è ciò che sperava la generazione della Seconda guerra mondiale: perché abbandonare tale attesa?

Quei tempi non erano certo migliori dei nostri. All’inizio sembra difficile: si tratta di rammendare tessuti malamente strappati, raccogliere lacrime e frammenti di pace spezzata. Ma non è tanto diverso da quando si va per strada a raccogliere poveri pezzi di vita di chi è senza casa, ricomponendoli con un po’ di amicizia e di cibo.

Non è diverso dall’andare a cercare per Natale chi è solo e dimenticato, magari isolato in una rsa, in un istituto o in un campo nomadi, per organizzare un pranzo. Partire dagli ultimi è la scelta cristiana (la stalla di Betlemme), ma può essere la scelta di chiunque voglia e desideri ricominciare a sperare e a sognare.

L’Avvento vuole risvegliare la speranza che è in noi: un messaggio per dire che non tutto è perduto, né per te, né per chi ti sta accanto, né per il mondo. È ciò che aspettano in Ucraina, a Gaza, in Siria, in Sudan e in tanti altri posti, assieme ai poveri delle nostre città.

Ognuno può chiedersi in questo tempo cosa attendere per sé e per gli altri. Il Natale è annunciato di notte: anche se crediamo di essere nell’oscurità, possiamo avanzare in questa notte a cercare. Il futuro appartiene a chi aspetta un nuovo tempo e lo cerca.

© Riproduzione riservata