Il funerale di Giulia Cecchettin che si è svolto a Padova il 6 dicembre secondo i canoni di un rito collettivo sembra condurre alle battute finali di un processo che da molte voci autorevoli è stato letto come uno spartiacque sul tema della violenza maschile sulle donne. Prima che si chiuda il sipario può essere utile soffermarsi una volta di più sul perché proprio ora, perché proprio questo femminicidio, sul che fare e che cosa succederà poi.

L’onda che ha travolto il paese a partire dall’8 novembre, giorno in cui la cronaca registra la denuncia da parte dei genitori della scomparsa di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta, può essere descritta come un caso esemplare di media hype. In gergo tecnico un media hype è definito come una «insistente» ed «esagerata» attenzione su un fatto da parte dei media, cioè un processo di amplificazione che modifica la percezione collettiva di un evento.

Amplificata, l’attenzione, lo è stata rispetto a quella abitualmente riservata ai casi di femminicidio in Italia, dove mai la narrazione mediatica ha toccato le corde del politico (come invece, per fare un esempio virtuoso, vediamo accadere in Spagna). Questa volta la notizia ha bruciato i confini della cronaca per incanalarsi nelle articolazioni del sistema massmediatico e il fuoco di attenzione è divampato.

«La cosa è iniziata con la scomparsa ma poi si è aperta una maratona mediatica perché c’era sempre qualche dettaglio nuovo che consentiva di tenere accesa l’attenzione. Inoltre, la sensibilità del pubblico è diversa se non sai già che una persona è morta perché c’è la speranza del lieto fine. Sembrava lo sviluppo di una sceneggiatura e l’elemento di suspance è stato a mio parere quello più importante nel determinare l’hype. Inoltre si è trattato di un caso paradigmatico per diversi aspetti; non c’è solo il possesso ma anche che lui si sentisse oltraggiato dal fatto che lei si laureasse prima», commenta Marcello Maneri, docente di Comunicazione, media e società all’Università Milano-Bicocca.

L’immedesimazione

La vicenda di Giulia e Filippo ci ha portato in massa dentro a quella zona friabile che è l’interscambio tra soggettività individuale e contesto culturale, una zona che chi opera a contatto con la violenza di genere conosce bene. Lì dove una conformazione psichica disturbata, come dai primi elementi sembra essere quella del femminicida Turetta, sfuma senza soluzione di continuità nella consuetudine, nell’habitus, nella tradizione che assegna un privilegio alla nascita ai nati sotto il segno maschile.

Si è trattato di un caso esemplare, dunque, in cui diverse categorie di persone hanno potuto immedesimarsi e, da pubblico passivo, diventare agenti: donne nel pensare “avrei potuto essere io”, uomini nel chiedersi “potrei essere io?”, genitori nell’interrogarsi sul proprio ruolo, e così via. Questo improvviso sentirsi coinvolte e coinvolti in prima persona lo abbiamo sentito nel proliferare delle voci riprese dalle testate giornalistiche e circolate nei social media.

L’empatia ha fornito carburante a una macchina mediatica già mobilitata sullo stesso argomento dallo strepitoso successo del film di Paola Cortellesi che a soli dieci giorni dall’uscita era già il film italiano con il miglior incasso dal dopo pandemia, il più visto nel 2023: segno non solo di un’opera ben riuscita ma anche della maturazione, nel pubblico, di una sensibilità disposta a farsi toccare.

Si potrebbe anche sospettare che nella sovra esposizione di questo femminicidio rispetto ad altri sia entrato in funzione un altro meccanismo tipico della macchina massmediatica, che per sopravvivere ha bisogno di mungere da tragedie sempre diverse: ci ha consentito di spostare almeno parzialmente lo sguardo da quello che si sta nel frattempo consumando a Gaza, una tragedia umanitaria rispetto a cui la continua messa in scena dell’imparzialità, altro rituale mediatico, potrebbe essere sempre più imbarazzante e difficile da praticare.

Che fare?

Nel proporre l’ipotesi che, per una combinazione imprevedibile di circostanze, a partire dal femminicidio di Giulia Cecchettin media e pubblico abbiano co-creato le condizioni per un salto di consapevolezza collettivo, credo che si debba dare valore e rilevanza alla forza lavoro che ha seminato il terreno con costanza e cura in decenni di lavoro.

Perché è qui che si innesta la visione sul che fare. Stiamo parlando della forza lavoro che, nel produrre cultura, non fa notizia: la pubblicistica, i laboratori nelle scuole, i corsi nelle università, la formazione per giornalisti e giornaliste, la pullulante attività dell’associazionismo nei quartieri e sui social, le presentazioni dei libri e i dibattiti, gli stickers, i murales, i presidi, le chat, i meme, i collettivi e le reti di uomini che nominano il patriarcato e lo mettono in discussione, le piazze – perlopiù ignorate dai media – chiamate dai collettivi femministi e transfemministi, il presidio dei centri antiviolenza, le petizioni, le campagne delle agenzie per i diritti umani, l’advocacy, eccetera.

L’elenco potrebbe continuare a lungo. Non ci piacciono le immagini militari, perciò suggeriamo la visione di questa forza lavoro non come un esercito ma come una pluralità – la minoranza del paese, ma pur sempre una pluralità – che nel quotidiano scava solchi, getta semi, pone domande e dà corpo alle parole. Maneri concorda: «C’è un accumulo che produce certi effetti solo in casi straordinari, effetti che però solo grazie a quell’accumulo si possono verificare. La sorella e il padre di Giulia non avrebbero detto le stesse parole se non fossero stati esposti a un pensiero femminista. Sono due condizioni necessarie ma non sufficienti».

La storia insegna che da questa combinazione di accumulo e caso straordinario può generarsi la tempesta perfetta che cambia i connotati del paesaggio.

Il caso irlandese

È avvenuto, ad esempio, in Irlanda tra il 2012 e il 2018 con il referendum che ha finalmente aperto la strada alla legalizzazione dell’aborto dopo quasi un secolo dalla nascita dello Stato irlandese.

La morte di Savita Halappanavar per setticemia, nel 2012, ha suscitato un’onda emotiva e mediatica che il governo conservatore non ha potuto ignorare. La donna, di origine indiana e residente in Irlanda, era andata in ospedale con un aborto spontaneo in corso alla diciassettesima settimana di gravidanza ma, data la presenza del «battito cardiaco fetale», i medici avevano rifiutato di intervenire in ottemperanza all’ottavo emendamento alla Costituzione irlandese che, approvato nel 1983 dalla destra e da gruppi cattolici conservatori, stabiliva il diritto alla vita del nascituro.

Si è verificato, anche in questo caso, un media hype che ha consentito all’attivismo pro-choice (pro-scelta, cioè contro la limitazione della libertà di scelta sulla propria sessualità) di uscire dal cono d’ombra e farsi sentire. Parole d’ordine e temi che erano appannaggio di gruppi militanti hanno cominciato a diffondersi, persone giovani digiune di attivismo se ne sono appropriate. L’azione di propaganda è stata mantenuta nel tempo e così si è arrivati al risultato sbalorditivo del referendum del 2018, che ha superato di gran lunga i pronostici degli exit poll.

È un buon esempio, credo, per ragionare sul lavoro che resta da fare anche dopo che il sipario sarà calato sul femminicidio di Giulia Cecchettin. Lo è anche in rapporto alla notizia di questi giorni in cui si annuncia l’ottenimento di più di centomila firme sulla proposta di legge dei gruppi anti-scelta che vogliono fare ascoltare alle donne in percorso di interruzione volontaria di gravidanza quello che viene impropriamente definito “battito cardiaco fetale”.

La violenza di genere può essere osservata nella sua radice millenaria e nella sua storia recente. È connaturata al modo in cui, in questa parte di mondo, si è addomesticata la sessualità femminile, codificando i sessi in modo gerarchico e segregante. Ma abbiamo iniziato a nominarla negli anni Settanta, a scriverne la storia negli anni Ottanta, a farne discorso istituzionale negli anni Novanta, e a misurarla solo agli inizi del nuovo millennio.

Non si tratta di un percorso lineare e progressivo: correnti di segno opposto sono in atto nel mobilitare l’immaginario collettivo. La partita è aperta nel qui ed ora e sta a noi giocarla, scegliendo da che parte stare.

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