Molto c'è da dire sull'autodifesa della ministra del Turismo Daniela Santanchè, in Senato il 5 luglio; vuol proteggere, oltre al proprio, l'onore del figlio, che nessuno tira in ballo, perché lo fa lei? Anche l'obliquo accenno a chi chiedeva un posto nel locale di cui era (o è), socia con Flavio Briatore, ci sta in una lite fra comari, ma degrada Palazzo Madama. Sono note le cordiali amicizie notturne fra chi di giorno se le suona brandendo la durlindana di cartone.

Santanchè segue i canoni del berlusconismo di cui è figlia: spostare l'attenzione, niente sui fatti, tutto sui procedimenti legali. Non dei fatti si parli, ma del processo. Così diviene essenziale appurare se Santanchè sapeva dell'indagine penale; perciò essa si dice ignara di quel che i suoi avvocati hanno il dovere professionale di dirle, come ha dimostrato l'attento Luigi Ferrarella sul Corriere. Altre cortine fumogene saliranno, per spostare sempre in là le conseguenze politiche. Dato che si diventa colpevoli solo dopo il terzo grado di giudizio, non ci si arriva quasi mai.

I processi seguono iter precisi a garanzia di chi può perdere la libertà, si pensi alle pene subite da Silvio Scaglia. Perciò devono stabilire se dati fatti o eventi configurino reati, quali norme sono state violate, valutare circostanze aggravanti o attenuanti, nel concreto. Non serve il bollo della Cassazione per assodare che una persona è indegna di un incarico, basta che un certo comportamento risulti dagli atti, e in Senato Santanchè non ha smentito nulla. La materia è intricata, respingente, e ne approfitta per tacere. Ma quei comportamenti nuocciono alla concorrenza in un'economia di mercato. Accertati i fatti, attendere quel bollo danneggia il pubblico interesse.

Se sono veri i fatti denunciati da Report e quelli usciti sulla stampa, che non è nemica del governo ma solo fa il suo lavoro, Santanchè sgombri la scrivania; l'han fatto, per rispetto dei loro cittadini, ministri colti in fallo in altri paesi, che non a caso attirano gli investitori molto più di noi. In Germania due ministri della Difesa, Zu Guttenberg e Lambrecht, si sono dimessi, uno per plagio di un lavoro accademico, l'altra per un video irriguardoso per i combattenti ucraini.

In Gran Bretagna l'ex premier Johnson è stato costretto dal suo partito a dimettersi, per la partecipazione ad alcolici festini allestiti dai collaboratori mentre i compatrioti non potevano uscire di casa neanche per partecipare ai funerali della madre. Quando emerse che Josefa Idem, ministra del governo Letta, non aveva pagato l'Ici, anche la furia di Santanché e Meloni la indusse a dimettersi. Se le due donne ora al governo avessero il senso della vergogna, la imiterebbero, ma forse si credono legibus solutae, esentate dalle norme valide per “gli sfigati”. Ricordi almeno Meloni chi era e donde viene. Già persone al governo accusano i magistrati di fare campagna elettorale contro il potere legittimato dal voto.

La corruzione, con l'idea che la legge vincoli solo gli altri, non sono invenzioni del berlusconismo, ma il capolavoro è stato sdoganare anche queste, ammiccando agli italiani: facciamo come voi vorreste fare, e noi “lo possiamo”, direbbe Totò. Si torna a quella matrice; si vìola la norma, se scoperti si blatera di giustizia a orologeria, se necessario si legifera a proprio vantaggio. Non ne soffre solo il funzionamento di una società e di un'economia di mercato, ma la stessa fibra del Paese; da almeno trent'anni la mina un cancro etico.

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