Giovedì scorso la Bce ha annunciato un aumento dei tassi a livelli che non si vedevano dal 2011. Si tratta di una decisione tanto attesa (ampiamente anticipata da mercati e commentatori) quanto pericolosa. 

Attesa, perché la Bce era ormai spalle al muro: le mosse di altre banche centrali (a partire dalla Federal Reserve americana) rendevano molto difficile la scelta di attendere ancora, soprattutto per gli effetti sul tasso di cambio.

Differenziali di interesse importanti possono portare a movimenti di capitale in uscita dall’eurozona e ad una svalutazione dell’euro, che rende ancora più costose le importazioni. Ma la Bce è con le spalle al muro anche per una strategia comunicativa che lascia alquanto perplessi.

La svolta rigorista è ingiustificata

Una volta abbandonato l’approccio attendista dei mesi scorsi, i componenti del Consiglio dei governatori hanno dimenticato ogni cautela, gridando ai quattro venti che per combattere l’inflazione erano disposti a tutto, anche ad affossare l’economia.

Come notava qualche giorno il Financial Times, ormai dentro alla Bce non ci sono più falchi e colombe, ma falchi e superfalchi. Questa svolta rigorista è incomprensibile perché la strategia attendista trovava le sue basi in differenze tra la zona euro e gli Stati Uniti che sono vere oggi come lo erano in precedenza: negli Stati Uniti una parte rilevante dell’inflazione è dovuta ad un eccesso di domanda che mette pressione su prezzi e salari e che può essere riassorbito con una politica monetaria restrittiva.

Da noi gli eccessi di domanda sono limitati a pochi settori (e causati da colli di bottiglia) e l’inflazione è in larghissima parte dovuta ai prezzi dell’energia. In queste condizioni una politica restrittiva non può riassorbire lo squilibrio (Putin non aprirà i rubinetti del gas se aumentano i tassi) ma agisce solo in maniera indiretta e dolorosa: la contrazione monetaria avrà un effetto sui prezzi solo perché contribuirà a far precipitare l’economia in recessione.

Una recessione che con ogni probabilità ci attende comunque, visto che il crollo del potere d’acquisto sta riducendo una domanda aggregata già poco dinamica (contrariamente agli Stati Uniti, ripetiamolo ancora).

Non è un caso che l’aumento dei tassi non abbia nemmeno rinforzato l’euro. Se da un lato ci riallinea con gli Stati Uniti, dall’altro, l’aumentato rischio di recessione ha un impatto negativo sulla valuta unica.

Ma ci sono almeno altri due motivi per cui la decisione della Bce è molto discutibile.

Il primo è che l’aumento dei tassi farà aumentare la pressione sul debito pubblico. I governi si dovranno finanziare a tassi elevati per sostenere famiglie e imprese; la frammentazione dei mercati del debito sovrano aumenterà (dello scudo anti-spread non si parla) e con essa l’instabilità finanziaria

. Inoltre, lo nota Daniela Gabor ancora sul Financial Times, una restrizione monetaria potrebbe creare problemi più profondi, visto che la liquidità creata dalla Bce in questi anni è stata fondamentale non solo per i governi ma anche per banche e settore privato.

Nel momento in cui inizia un’inevitabile nuova stagione di ristori, i governi europei si troveranno in balia della speculazione e con finanze pubbliche (inutilmente) più fragili.

La spirale prezzi-salari che non c’è

Ma rispondono i soliti noti, le politiche restrittive sono necessarie anche in caso di inflazione da costi perché, qualunque sia la causa dell’aumento dei prezzi, questi possono innescare aspettative di ulteriori aumenti da parte di imprese e lavoratori, che quindi negozieranno salari più alti, innescando una spirale prezzi-salari. Inevitabile, a questo punto, è il richiamo agli anni Settanta, quando la spirale inflazionistica e la stagflazione contribuirono alla fine delle trente glorieuses e delle politiche keynesiane.

Anche prendendo per buono questo argomento, cosa non evidente in un contesto in cui tutti gli operatori si aspettano una riduzione dell’inflazione nei prossimi mesi, di spirale prezzi-salari non c’è traccia.

I dati della Bce ci dicono che nell’eurozona i salari sono aumentati del 2,4 per cento nel secondo trimestre del 2022, mentre i prezzi sono volati a più 8 per cento (0,86 per cento e 7,4 per cento in Italia). I salari reali (al netto dell’inflazione), quindi, sono crollati dell’5,6 per cento e dell’6,5 per cento nell’eurozona e in Italia rispettivamente; questo, in un solo trimestre. Si tratta del più brutale calo dagli anni Novanta.

L’inflazione salariale, insomma, è uno spettro che si guarda bene dall’aggirarsi per l’Europa. Purtroppo, verrebbe da aggiungere, visto l’impatto sul potere d’acquisto, sulla crescita, e sulla disuguaglianza.

La Bce in prima linea suo malgrado

Rimane da chiedersi perché la Bce abbia imboccato con tanto fervore la via della restrizione monetaria. Se nessuna delle ragioni fondamentali che giustificavano l’attendismo è venuta meno, la sola spiegazione che viene in mente è che il Consiglio dei Governatori sia stato attanagliato dalla paura dell’inazione.

Qualche anno fa, in un articolo sulla politica monetaria durante la crisi dell’euro notavo come a partire dal whatever it takes del 2012 la Bce si fosse trovata ad essere suo malgrado l’unico giocatore in campo, e che il suo attivismo fosse stato reso necessario dall’inerzia di governi europei invischiati nell’austerità.

Forse oggi la situazione è simile: la Bce é ancora una volta protagonista riluttante in una recita in cui gli altri attori sono incapaci di farsi avanti. Due anni dopo l’inizio della pandemia non si vede nessuna seria discussione su come riorganizzare la produzione per evitare colli di bottiglia.

La crisi energetica, iniziata prima della guerra, ha svelato a tutti che le energie rinnovabili sono oggi più efficienti ed economiche di quelle fossili; ma negli anni scorsi gli investimenti hanno latitato.

Senza la guerra non si sarebbe nemmeno iniziato a parlare del cervellotico funzionamento dei mercati energetici, per i quali, peraltro, una riforma non è all’ordine del giorno. Misure mirate volte a ridurre rendite ed extraprofitti, come i controlli di prezzo che hanno funzionato nel secondo dopoguerra, sono ancora tabu.

Il tetto al prezzo del gas sui mercati all’ingrosso è discusso da mesi e se mai verrà approvato lo sarà probabilmente a livelli di prezzo eccessivamente alti.

In molti ritengono che serva una seria politica industriale; oggi per contrastare l’inflazione da costi e domani per renderla meno probabile. Però nulla si muove e, come nel 2012, si deve contare su di una politica monetaria inefficace e dannosa; e, ovviamente, sulla doccia fredda.

© Riproduzione riservata