Mi sono trovata a pensare che l’Italia è ormai un paese con poca immaginazione e pochi desideri. Posso sbagliarmi, e ne sarei felice, ma ho la sensazione che questo pensiero contenga del vero.

A prima vista una parte degli italiani sembra convinta di avere molti desideri e molta immaginazione. L’Italia è bella, è considerata tale (a ragione) dagli altri paesi del mondo, e tanti da sempre vengono qui cercando forme di ispirazione. Non è strano, dunque, che molti siano portati a ritenere di avere immaginazione e desideri (che sono i motori dell’ispirazione).

Non è strano che pensino che il paese ne possegga in quantità. Sono sicura, per esempio, che il nostro governo attuale sia convinto di questo, o che si sforzi di esserne convinto: una destra nazionalista tende a sostenere anche le idee traballanti, se riguardano lo spirito positivo della nazione. Purtroppo, però, essere convinti non basta.

Un ricordo lontano

Questa idea che siamo un paese dotato di desiderio e immaginazione sembra più il frutto di un ricordo, come le persone che, dopo un incidente, perdono una gamba, ma gli sembra ancora di averla, la sentono anche se non c’è più. Una volta ho scritto la storia di una donna che teme che il suo amante smetta di desiderarla. Allo stesso tempo teme che lui non se ne renda conto, o meglio che non voglia rendersene conto, che insomma continui a essere convinto di desiderarla, perché a volte accade, ci convinciamo di avere ancora del desiderio, ma è solo la memoria di averlo avuto. Un attaccamento quasi neurologico a quel che c’era. La memoria del desiderio.

Il desiderio per me è importante, e non parlo solo di erotismo, il desiderio investe tutta la vita: la voglia di esserci, di fare esperienza, di provare le cose, di provare emozioni, di costruire. Non bisogna, ovviamente, confonderlo con il piacere, altrimenti il discorso sull’Italia sarebbe già risolto: non mi azzarderei mai ad affermare che in Italia non si possa provare piacere, sarebbe una sciocchezza, l’Italia regala moltissimo piacere. Ma non coltiva il desiderio.

Michel Houellebecq in più punti della sua opera dice che il desiderio è un’illusione e che è meglio il piacere, e io capisco perché lo dica: il piacere ha qualcosa di indiscutibile e di materiale che il desiderio non ha, il desiderio infatti è soprattutto una costruzione mentale, e non dà pace.

Tenerci in vita

Però a Houellebecq direi che il desiderio ti tiene in vita, mentre il piacere ti accompagna dolcemente verso la morte. Essere accompagnati dolcemente verso la morte, a livello esistenziale individuale, può anche essere molto interessante, visto che comunque prima o poi moriamo.

Ma per un paese, che in teoria non dovrebbe occuparsi di morire, non funziona. Un paese, anzi una comunità, se vogliamo usare una parola che preferisco, deve voler vivere. Ed è tenuta in vita dal desiderio e dal senso di possibilità più di quanto sia tenuta in vita dal piacere, credo.

L’atto di desiderare ha una natura economica classica, da cui derivano alcune ambiguità. Desiderare significa sognare qualcosa, anzi significa di più. Desiderare significa avere dei progetti, sia di lungo termine (un’idea forte e condivisa della società che si vorrebbe), sia di breve e medio termine (una serie di obiettivi concreti, il fatto di voler arrivare a risultati in qualche modo misurabili o perlomeno osservabili).

Desiderare significa anche fare delle promesse, perché le promesse sono situate nel futuro e permettono di realizzare passo passo i progetti di cui sopra. Ma le promesse sono sempre oggetti delicati, in relazione al desiderio. Prima di tutto perché possono non essere mantenute, e la natura umana è sempre oscura al riguardo, dal momento che amiamo la trasgressione (la rottura di una promessa contiene sempre un elemento di attrazione, e può dare piacere in sé, e dunque si torna al piacere, che qui diventa una corruzione del potere). L’Italia (non solo l’Italia, per carità) è un paese che da tempo riceve e coltiva promesse non mantenute.

In secondo luogo le promesse sono costruite sui desideri di chi le riceve, ma non sono mai una misura della sincerità di chi le fa. Le promesse sono prima di tutto un linguaggio, sono fatte di parole, sono racconto, come ci insegna per esempio quel libro eccezionale che è “Le relazioni pericolose”. Il potere, nella promessa, è trasferito dalla realtà al linguaggio: dire le cose, dirsele, immaginare un futuro anteriore in cui tutto si sarà avverato.

Una cosa interessante de Le relazioni pericolose è che la parola “relazione”, nei dizionari del tempo in cui fu scritto (1782), significava soprattutto commercio.

© Riproduzione riservata