Quest’estate - l’estate dei sei anni - con mia figlia abbiamo iniziato a leggere libri più lunghi e articolati. Fumetti come Lucky Luke dando risalto ai dialoghi geniali di René Goscinny, Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll capitolo per capitolo - forse il più bel libro che esista in grado di essere apprezzato da lettori dai sei ai novantasei anni - eccetera.

E poi, grazie a un regalo fortuito, una raccolta delle Più belle storie dell’antica Roma, scritta da Lorenza Cingoli e illustrata da Patrizia Manfroi, pubblicata per le edizioni Gribaudo. Dallo sbarco di Enea a Spartaco e Nerone, il libro racconta ai più piccoli in modo efficace e moderno - penso in particolare all’attenzione ai personaggi femminili - le più celebri leggende latine come se fossero fiabe.

Moderno, fino a un certo punto. Nel senso che, con tutta la buona volontà del mondo, certe faccende di duemila anni fa tendono a essere un poco scabrose.

La scelta di chi le racconta ai bambini, dunque, è tra essere massimamente fedeli oppure educorarle, se necessario falsificarle.

Le sabine furono stuprate?

Prendiamo l’episodio del ratto delle Sabine. Trovandosi nella spiacevole condizione di “involuntary celibate”, cioè senza ragazze, gli antichi Romani decidono di andarsele a prendere presso i Sabini. Organizzano un trappolone e se le portano via.

Per citare il libro: «Si avventarono sulle ragazze, che furono caricate sui cavalli e portate via».

Su questo episodio storico esiste oggi un vero e proprio dibattito, alimentato anche dal fatto che in lingua inglese si parla senza mezzi termini di “Rape of the Sabine Women”: una parola che nell’uso contemporaneo indica nientemeno che uno stupro, mentre in questo caso fa riferimento all’etimologia latina derivante da “raptio”, cioè rapimento.

Ma guardiamoci negli occhi con franchezza: che all’epoca il rapimento da parte di un popolo guerriero possa implicare lo stupro è tutt’altro che improbabile, e anzi stupirebbe il contrario.

Il termine “raptio” ha dunque, nella maggior parte dei casi, un chiaro uso eufemistico. Per questo diverse studiose femministe hanno denunciato le implicazioni di questo mito fondatore. 

Che l’uso comune di “raptio” sia principalmente eufemistico sembra suggerirlo l’excusatio non petita fornita proprio dagli storici antichi, a partire da Tito Livio, che invece precisano esplicitamente che i romani non hanno abusato delle Sabine.

La versione ufficiale è restituita nel mio libro per l’infanzia, che descrive la prigionia dorata delle ragazze e il suo finale romantico: «A furia di attenzioni i Romani si fecero perdonare e, con l’arrivo della primavera, le ragazze si fidanzarono con loro». Un po’ difficile da credere. Ma sicuramente preferisco raccontare a mia figlia questa versione rispetto a quell’altra più brutale.

Raccontare la Storia

Insistere sul fatto che la nostra civiltà sia fondata sullo stupro non sarebbe certo una buona idea. Di tutta evidenza c’è una ragione per cui la storia, con tutti i suoi orrori, non viene insegnata prima di una certa età - se vogliamo trasformarla in favola della buonanotte, bisogna essere pronti a qualche compromesso.

Eppure a un certo punto di queste cose finiremo per dover parlare, e io dovrò scegliere se raccontare a mia figlia la brutale verità oppure imbellettarla.

Lo stesso dilemma se lo pone, più in grande, chi definisce i programmi educativi che servono a trasmettere la religione civile che tiene coesa ogni società.

A prima vista, a noi moderni la verità sembra preferibile. Ma è così orribile la verità - sulla condizione femminile del passato così come sulla violenza che regge il benessere della classe media occidentale - che ciò che dovrei raccontare a mia figlia rischia paradossalmente di renderla cinica, abituandola al fatto che non esistono il bene e il male ma solo diverse gradazioni del male.

Educare significa edulcorare

Ma è davvero questo il ruolo di chi educa? Nel celebre romanzo di Hermann Hesse, il padre di Siddharta celava a suo figlio la morte, la vecchiaia e la malattia. Io non arrivo a tanto e anzi credo sia opportuno parlare francamente di certe cose. Ma per trasmettere una bussola morale è anche necessario fare “come se” il bene e il male esistessero.

La terribile verità, se proprio necessario, la dovrà imparare da sola, quando sarà pronta ad accettarla.

Spesso il vero e il giusto non coincidono: lo insegnava proprio un grande erudito romano, di nome Marco Terenzio Varrone, illustrando la funzione sociale dei miti.

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