La mancata nomina del nuovo comandante della Guardia di Finanza da parte del governo è una cartina tornasole. In primis, dell’incapacità di Giorgia Meloni, davanti a dossier sensibili, di gestire il potere in modo tempestivo e responsabile.

È infatti la prima volta nella storia della Repubblica che palazzo Chigi non riesce a trovare nei tempi stabiliti il nuovo capo di una delle istituzioni più importanti del paese. Nonostante la premier e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti da cui dipende formalmente la nomina sapessero da ottobre che Giuseppe Zafarana, ex comandante in capo, avrebbe terminato il suo mandato a maggio. Alla destra che comanda non sono bastati otto mesi a trovare un sostituto autorevole. Meloni e il suo sottosegretario Alfredo Mantovano invece di gestire con la necessaria riservatezza e rapidità un passaggio delicato per un corpo dall’alto peso strategico (la Finanza ha in mano quasi tutte le indagini giudiziarie sull’amministrazione pubblica) hanno gestito la partita come dilettanti allo sbaraglio.

Novelli Cinque stelle in giacca e cravatta, si sono seduti a discettare al tavolo cinque minuti prima della scadenza, senza avere in tasca alcun nome condiviso. La guerra tra Meloni-Mantovano, che spingono per la promozione del generale Andrea De Gennaro, e la coppia Giorgetti-Crosetto (che preferiscono Umberto Sirico o Bruno Buratti) ha creato prima un’impasse tragicomica, a cui anche il Quirinale assiste preoccupato.

Poi ha contagiato i fragili equilibri interni dei militari. Il regno di Zafarana ha garantito per anni armonia e stabilità alla forza di polizia, seppellendo i residui veleni di antiche stagioni. In appena due settimane il governo è riuscito nell’ardua impresa di minare una pace quasi decennale, producendo tensioni tra i candidati, ricostruendo cordate interne contrapposte, sviluppando gelosie e rancori sopiti. Un demenziale tutti contro tutti che fa male al corpo, al governo e al paese, e che evidenzia l’approssimazione ontologica dell’esecutivo, figlia della presunzione che il potere garantisca sempre e comunque un salvacondotto alle proprie negligenze. Non è così. Soprattutto quando si maneggia con incuria il deep state, i prezzi si pagano.

Chiunque sarà il nuovo comandante generale, dovrà adesso ricucire gli strappi interni causati dal pasticcio di Meloni e compagni. Capaci di creare tensioni anche nella polizia, a causa della decisione di sostituire anzitempo i vertici. Il tutto avviene mentre Meloni afferma di voler fare riforme per dare a chi vince le elezioni «maggiore stabilità e più forza per governare». Nessuno stravolgimento della Costituzione, però, potrà mai migliorare le performance di chi non ha la capacità di esercitare decentemente i diritti e le attribuzioni proprie del potere esecutivo.
 

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