Quello a cui abbiamo assistito mercoledì alla Camera è probabilmente il trailer del film che vedremo nella campagna per le europee dei prossimi mesi. Il confronto personale, esaltato dai media, tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Ci sono ragioni evidenti che spingono Meloni a presentarsi. Sono anzitutto legate alla cultura politica della destra, con antiche radici, che esalta la leadership personale del capo sopra le miserie della partitocrazia e il pantano dei parlamenti. La stessa che sostiene la proposta del premierato elettivo.

Ma pesa pure la necessità di rafforzarsi, anche all’interno della sua coalizione, nonostante le difficoltà incontrate dal governo. Quale occasione migliore per una radicalizzazione ideologica priva di contenuti significativi e con toni da comizio, che esalti le qualità comunicative della leader e la sua empatia con un’ampia quota di elettori.

Più controversa è la scelta di Schlein. Ma sembra che alla fine accetterà anche lei la strada della personalizzazione del confronto. L’esito del match della Camera e la capacità di fare gol sulla sanità hanno probabilmente rafforzato la tentazione di scendere in campo.

Non ingannare gli elettori

Le ragioni che dovrebbero scoraggiare Schlein a candidarsi sono state anzitutto espresse da suoi autorevoli sostenitori come Romano Prodi e Pier Luigi Bersani. E sono state ricordate su questo giornale da diversi interventi (in particolare da Gianfranco Pasquino).

Si tratta di non ingannare gli elettori candidandosi per una carica che non si andrà a ricoprire, mostrando allo stesso tempo scarsa considerazione per il parlamento europeo. Ma c’è anche un’altra ragione da non sottovalutare. Che cosa vuol dire puntare a un partito che non si affidi a “un uomo solo al comando”? Significa contrapporre il progetto alla personalizzazione, contrastare la tendenza della politica contemporanea alla personalizzazione della leadership con il contestuale indebolimento del partito come organizzazione e come luogo di elaborazione di un progetto.

Questo obiettivo appariva centrale nella “promessa” della nuova segreteria. Si puntava a recuperare quella parte consistente dell’elettorato che ha lasciato il partito per indirizzarsi verso l’astensione o la nuova destra, ma anche ad attrarre il consenso di una parte dei ceti medi. Ciò comporta, a sua volta, la necessità di lavorare con impegno a un progetto per l’Italia che abbia l’obiettivo esplicito di combattere le disuguaglianze sociali – tra le maggiori nelle democrazie avanzate – gettando al contempo le basi per uno sviluppo inclusivo.

Si dovrebbe mostrare in concreto che una redistribuzione non assistenziale e non contrastante con la crescita dell’economia di mercato, ma che anzi la favorisca, è possibile. Ciò richiede riforme profonde del welfare e della tassazione. E richiede anche una nuova politica industriale orientata all’innovazione.

Certo è che nell’anno trascorso Schlein sembra essere stata impegnata in una logorante guerra di trincea dentro il partito e non è riuscita finora ad avviare un nuovo progetto per l’Italia. Un anno è forse poco per perseguire questo obiettivo, ma è abbastanza per cominciare a comunicarlo. Invece ci si è limitati a mobilitarsi su alcune singole questioni (il salario minimo, la sanità) certo importanti ma senza un quadro integrato, una visione politica complessiva.

È così che di fronte alla resistenza al cambiamento incontrata nel partito si è fatta strada la tentazione di candidarsi e di cedere alla personalizzazione per rafforzarsi. Una scelta probabilmente sostenuta, per motivi diversi, dai suoi seguaci ma anche dagli oppositori ostili ai cambiamenti.

Sostituire la personalizzazione al progetto significa però chiedere il consenso più sulle proprie qualità personali (il look, la capacità di comunicare e la prontezza dell’argomentazione) e finisce per assecondare il disegno plebiscitario di Meloni che punta a sorvolare sui contenuti. La leader del Pd potrà anche prendere qualche punto percentuale in più, ma il cambiamento promesso rischia di non arrivare.

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