Non c’è stagione peggiore per diventare capo del governo che da settembre in avanti. Non hai ancora digerito bigné e champagne (o un più patriottico spumante), e ti trovi catapultato nella sessione di bilancio, dove anche i migliori rischiano di affogare.

Intendiamoci: siamo al cuore della democrazia parlamentare. Da un punto di vista storico, perché i parlamenti nascono proprio con la pretesa di partecipare alla decisione sulla spesa pubblica. E da un punto di vista di sistema, perché se l’indirizzo politico è il programma d’azione proposto dal governo e condiviso con il parlamento, il bilancio è la trascrizione in termini contabili di quel programma.

Il voto del parlamento sul bilancio proposto dal governo (che è bilancio di previsione: autorizza entrate e uscite per l’esercizio finanziario successivo) diventa così un momento di verifica del rapporto di fiducia, tanto che qualcuno ritiene che un suo rifiuto costringa il governo alle dimissioni.

Si capisce, allora, perché la sessione di bilancio diventi presto il momento di più delicata e intensa dialettica tra parlamento e governo: da un lato c’è il governo che vuole portare a casa il risultato, e dall’altra c’è il parlamento che può metterlo seriamente nei guai, facendolo arrivare all’inizio del nuovo anno senza un’autorizzazione alla spesa pubblica.

Stati Uniti e Francia

La forma di governo parlamentare è quella che risolve nel modo più ragionevole questo rischio. Negli Stati Uniti, uno scontro tra Congresso e presidente porta alla paralisi dell’amministrazione: il cosiddetto shutdown, tutto chiuso. È successo a Clinton, a Obama, a Trump, e potrebbe succedere a Biden: ce n’è per tutti. E, perché alla fine bisogna pur uscirne, è generalmente il presidente a dover abbassare un po’ il tiro.

In Francia, in teoria funziona al contrario: se lo scontro tra parlamento e presidente persiste, è il governo che può vincere il braccio di ferro, arrivando addirittura a imporre il bilancio con una propria ordinanza, di fatto esautorando l’assemblea. Ma a questo estremo non si è mai arrivati.

Tra questi due estremi, il parlamentarismo italiano sta lì a chiedere calma, riflessione, mediazione, se necessario a chiuderli tutti a Montecitorio anche alla vigilia di Natale o di Capodanno: si scontreranno, si scorneranno, si smusseranno, fino a quando non esca una soluzione condivisa.

Il ricatto della fiducia

La strada per chiudere la discussione prima dell’inizio del nuovo anno c’è, ed è la presentazione da parte dell’esecutivo di una questione di fiducia, che è un po’ come dire al parlamento «insomma, sì o no?». E il parlamento a quel punto deve decidere: o sì alla proposta del governo, così com’è; o no, e a quel punto però il governo si dimette.

Certo, è un po’ un ricatto, tanto che nel 2019 la Corte costituzionale ha segnalato che non lascerebbe passare la cosa se ne derivasse «una compressione della funzione costituzionale dei parlamentari». Dunque si richiedono dei presupposti giustificativi ragionevoli.

Essere arrivati al governo solo a fine ottobre, e dunque dover disegnare un bilancio in pochi giorni, è un elemento da tenere in considerazione. Ma, a parte questa fisiologica necessità, le ragioni delle lentezze delle ultime settimane sfuggono ad una piena comprensione, tanto più che non c’è stato neanche bisogno di lunghe interlocuzioni con la sede europea, che ha rappresentato minimi rilievi che certo non possono giustificare il ritardo attuale. Viene il dubbio che dietro ci sia soltanto un po’ di impreparazione tecnica dell’esecutivo, che, per carità, può essere benevolmente perdonata, ma solo fin quando non ne viene «una compressione della funzione costituzionale dei parlamentari».

© Riproduzione riservata