Alle cinque di venerdì pomeriggio una strana piccola folla colorata, 25 persone, ha invaso festosamente la Casa Santa Marta in Vaticano, dove vive papa Francesco. I ragazzi e le ragazze si sono seduti per terra, avevano un dolce da regalare. Sul divano ha preso posto Mbengue Nyimbilo Crepin detto Pato, 30 anni, migrante camerunense, a luglio ha perso nel deserto tra la Tunisia e la Libia la moglie Matyla e Marie, di sei anni, soffocate dalla sabbia, nei giorni in cui l'Europa e l'Italia corteggiavano il tunisino Kaïs Saïed per convincerlo a firmare un memorandum blocca-migranti. Quando il papa è arrivato, don Mattia Ferrari, giovane, coraggioso prete emiliano, trent'anni ancora da compiere, cappellano della Ong Mediterranea Saving Humans, ha introdotto uno a uno i presenti: «I volontari di Mediterranea, le famiglie che abitano allo Spin Time, due suore che vivono con loro. Qui ci sono cattolici, atei, musulmani, italiani, migranti, vaticani...».

Ascoltandolo, e guardandomi intorno, mi sono venute in mente le parole scritte quasi duemila fa dall'apostolo Paolo nella lettera ai Galati: «Non c'è qui né Giudeo né Greco, non c'è né schiavo né libero...». Il fondamento universale del cristianesimo. «Siete tutti fratelli!», ha esclamato papa Francesco. Negli interventi in tanti hanno parlato della loro solitudine, di migranti, di attivisti, di studenti che dormono nelle tende contro il caro-affitti, ricevendo dal papa la stessa risposta: «Andate avanti!». Nella preghiera finale il papa ha ricordato chi vive «nei lager» del Nord Africa.

Pato era uno di loro. Della sua vicenda si è occupata la stampa internazionale più di quella italiana, il “Guardian” a settembre gli ha dedicato una pagina intera. È stato sette anni nei centri gestiti dalla mafia libica travestita da istituzione statale di uno Stato che non c'è, dove «ti picchiano a morte e ti gettano in una fossa come un cane», racconta.

È scappato in Tunisia con la moglie e la figlia che non sono sopravvissute al respingimento operato dalle forze di polizia di Saïed, il nostro nuovo alleato. Infine, ha raggiunto l'Italia dalla Libia a bordo di un barcone, due settimane fa. Ho incontrato Pato più volte negli ultimi giorni. Gli ho chiesto, come avevo già fatto via zoom, se chi vuole partire per l'Europa conosce le misure del governo Meloni sulla costruzione dei nuovi Cpr e sui due centri da aprire in Albania.

La stampa governista li esalta infatti come deterrenti per la partenza. Pato ha sorriso, mite e determinato: «Conosciamo tutto, ma solo la costruzione di un muro nel Mediterraneo potrà impedire di partire a chi vuole venire». Mentre parlavamo guardava il mare del litoriale laziale, si vedeva il promontorio della maga Circe. Ulisse è il navigatore, il migrante per eccellenza, il fondamento della civiltà europea è il viaggio nel Mediterraneo. «Prima il mare era un muro, adesso mi dà un senso di pace», mi ha detto Pato.

Nella sua storia c'è la sintesi di tutte le storie, di chi riesce ad arrivare e di chi non è mai arrivato, di ogni ingiustizia e di una speranza possibile. E anche del fallimento di tutte le politiche migratorie di questi anni, di molti governi di diverso colore, da ultimo del governo Meloni.

Guardavo intorno a me i partecipanti dello strano incontro in Vaticano di venerdì. I volontari delle Ong con le magliette blu di Mediterranea. Gli studenti delle tende. Gli occupanti del palazzo dello Spin Time a Roma che si battono per salvarlo dalla speculazione. Preti e suore testimoni del Vangelo. Nel complesso, aggiungo anche quel pezzo di giornalismo che non si arruola nella corazzata sovranista, sono quella parte di società che il governo Meloni ha scelto come obiettivo di decreti anti-Ong (l'Ocean Viking bloccata e multata), decreti blocca-migranti, l'ennesimo pacchetto sicurezza di due giorni fa.

In un paese in cui la povertà è diventata un fenomeno strutturale, cito il rapporto della Caritas “Tutto da perdere” presentato in vista di oggi, la giornata mondiale dei Poveri, con 14 milioni di persone a rischio di esclusione sociale, il governo che si spaccia per amico del popolo contro le élite svela invece sempre di più la sua ispirazione ideologica, la difesa feroce del proprio recinto di una parte ristretta di società che si ritiene maggioranza e che pure si sente assediata da nemici esterni. È una paura che va ascoltata, vero. Ma in una società fratturata e percorsa da mille divisioni vincerà chi ricuce, non chi allarga il fossato, chi include, non chi esclude. Per questo l'abbraccio del papa a Pato, un richiedente asilo arrivato dal mare, è un gesto che consola una ferita che non si può rimarginare. Ma è anche il gesto più profondamente politico.

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