Tra manifestazioni di mozzaie’ Shabbat (l’uscita dello Shabbat che avviene il sabato sera), presìdi spontanei, blocchi dei binari, delle autostrade, marce sulle tracce dei percorsi profetici (davvero storica quella di decine di migliaia di persone da Tel Aviv a Gerusalemme in vista del voto finale che ha portato alla approvazione della prima parte della controriforma della giustizia di Benjamin Netanyahu), scioperi di svariate categorie, rifiuto di migliaia di riservisti essenziali alla difesa dello Stato di rispondere alla chiamata di un governo non democratico, caminetti con l’opposizione, pressioni continue del presidente Isaac Herzog, davvero non si capisce cos’altro possano fare gli israeliani per farsi ascoltare dal governo.

Per ora ha risposto, come si dice dalle mie parti, o facendo lo gnorri parlando di tutt’altro come in un teatrino dell’assurdo o scaricando la responsabilità sull’opposizione, di piazza e parlamentare.

La prima ridotta a manipolo di anarchici facinorosi come fossero black block nostrani (mai descrizione fu più falsa), l’altra colpevole di ostruzionismo.

La soluzione esterna

Viene, allora, in soccorso il vincolo esterno con un attivismo sempre più pronunciato da parte della Casa Bianca, che, fatto senza precedenti nella storia dei due alleati di ferro, ancora non ha invitato il premier israeliano da quando si è insediato a fine dicembre 2022.

Anzitutto, la visita riappacificatrice col presidente Herzog, che incarna in Israele lo stesso contraltare da noi recitato dal presidente Sergio Mattarella, oltre ad essere uno storico rivale di Netanyahu stesso, anche per ascendenze famigliari. Secondo, con l’irrituale invito di Biden a ritirare la riforma.

Terzo passo, assai più sottile, far leva sull’Arabia Saudita, supervisore di ultima istanza degli storici Accordi di Abramo che hanno iniziato a ristabilire relazioni diplomatiche col mondo arabo, affinché il premier abbandoni al proprio destino i suoi attuali alleati suprematisti e razzisti per, magari, rivolgersi all’ala più dialogante dell’opposizione, leggasi Benny Gantz.

In sostanza, Biden vorrebbe riaprire il dossier israelo-palestinese implementando la soluzione due popoli due stati. Darebbe, così, ampio margine di manovra a Mohammed bin Salman, influente su entrambi i fronti.

In cambio, gli Stati Uniti sarebbero disposti ad offrire know-how per implementare il nucleare civile (e non solo) tanto bramato dai sauditi in funzione anti Iran. Reazione del premier israeliano? Resistere, resistere, resistere!

Il vincolo interno

Spesso ci si scorda della convergenza di interessi nel limitare il potere della Corte suprema fra un primo ministro assediato dai processi e con il sentore di poter ottenere vantaggi per il proprio paese in una fase storica in cui l’occidente ha dovuto digerire svolte autoritarie (Turchia, Ungheria, Polonia), e la componente religiosa del proprio governo.

Netanyahu dovrà certo subire i tempi imposti dai propri alleati, ma non è sotto ricatto. Fin dall’inizio non poteva non sapere dove avrebbe portato una simile compagine governativa.

Il pensiero, nell’attesa, magari, che torni Trump a Washington, è che, onde rischiare uno spostamento dello stato ebraico in orbita russo-cinese, gli americani si adegueranno, ricalcando, come detto, un copione visto altrove. Non è dall’esterno che potrà arrivare la salvezza di Israele.

Il calice è da bersi tutto. Anche perché, per chi sa osservare attentamente, è facile vedere come le anime che oggi si confrontano a Gerusalemme prendono forma addirittura nel Settecento quando il l’ebraismo reagisce in modo assai diversificato all’incontro con la modernità.

Si cita spesso la famosa massima del Rabbino Hillel, se non ora quando. Si omette, però, la seconda parte: «Se io non sono per me, chi per me?». Qualcosa sembra muoversi all’orizzonte. Osservare all’interno del Likud.

© Riproduzione riservata