Vedremo se il governo di Mario Draghi riuscirà nell’impresa improbabile, ma tecnicamente non impossibile, di rimettere il dentifricio nel tubetto. Il governo è convinto che all’apparire del parere positivo dell’Ema la somministrazione del vaccino AstraZeneca ripartirà «speditamente» e senza strascichi, anche se tonnellate di studi indicano che l’accettazione dei vaccini da parte della popolazione è una questione complessa che si regge sul delicato equilibrio fra la fiducia nel prodotto (il vaccino), i provider (i medici) e i policymaker (decisori politici e autorità farmacologiche), e l’allarme scientificamente ingiustificato intorno al vaccino inglese ha incrinato questo rapporto, piazzando su AstraZeneca una nube di scetticismo e timore che difficilmente potrà svanire.

Le scienze umane sono fortunatamente inesatte, e dunque si spera che le persone, esibendo più razionalità di quella dei governanti, ricomincino a fidarsi. Se anche così fosse, la questione della gestione del caso AstraZeneca rimane, ed è una questione che non ha nulla a che fare con la scienza, ma soltanto con la politica. L’Aifa dice che la sospensione è stata una decisione politica, la telefonata fra Draghi e Emmanuel Macron lo conferma implicitamente, le esternazioni della commissaria europea Ursula von der Leyen sul fatto che «Moderna e Pfizer sono case farmaceutiche molto affidabili, AstraZeneca no» lo ribadiscono.

In assenza di clamorose prove sugli effetti avversi del vaccino, la decisione di sospendere, in base a un fraintendimento del principio di precauzione così dilettantesco che non ci si può credere, risponde al principio politico di seguire la linea della Germania. Non sfuggono a nessuno l’importanza dei rapporti di forza e le ragioni della geopolitica, che inducono talvolta a rimanere in un solco invece di scartare di lato, ma il senso della scelta di Draghi a palazzo Chigi risiede esattamente in quell’autorevolezza che dovrebbe permettergli di prendere una linea autonoma e poi gestire i contrasti.

Lo standing quasi leggendario di cui gode, Draghi se l’è guadagnato proprio forzando, senza violare, i mandati che erano imposti alla Bce. Le ragioni per seguire la Germania sono comprensibili, ma non tutte le ragioni comprensibili sono buone. A cosa serve un presidente del Consiglio di «alto profilo» se poi di fronte a una questione che non è esagerato definire di vita o di morte si accoda a una bassa logica di subordinazione verso la potenza di riferimento europea, che in questo caso ha scelto una strada irrazionalmente pericolosa?

Lasciamo volentieri i sentimenti germanofobi agli inglesi, ai sovranisti e alle barzellette, qui il punto non è trovare qualcuno su cui scaricare le colpe o rinfocolare complotti, si tratta di guardare senza infingimenti alla dinamica di potere che ha animato una decisione che avrà delle conseguenze sul piano vaccinale, la priorità assoluta e indifferibile del governo, senza cedere alla spiegazione un po’ ingenua della dialettica fra il governo e le decisioni vincolanti dell’Aifa. L’Austria, che non si è accodata ai paesi sospensori di AstraZeneca, dimostra che lo spazio politico per fare diversamente c’era.

Il governo italiano, invece, ha preso la via più facile e sbagliata, il presidente del Consiglio non ha detto “whatever it takes” ma una specie di “si fa quel che si può”, e la gestione del caso ha sfiorato il ridicolo quando martedì palazzo Chigi ha pubblicato un comunicato in cui si legge che «le dichiarazioni preliminari di oggi dell’Ema sono incoraggianti». Ma l’Ema non aveva mai scoraggiato nessuno, e continuava a spiegare, perfino mettendolo in grassetto nei comunicati, che i benefici del vaccino superano enormemente i rischi connessi agli effetti avversi. Non serviva molto altro per decidere.

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