Per quanto il nostro cervello fatichi ad affrontare allo stesso tempo due diverse emergenze, purtroppo una crisi non neutralizza automaticamente l’altra. Vladimir Putin sta forse sbaragliando le difese ucraine, non la pandemia. Nella storia, anzi, guerre, pestilenze e carestie sono spesso andate di pari passo, intrecciando tra loro cause ed effetti.

Immagino che Covid-19 sia l’ultimo pensiero delle persone che dormono nei sotterranei della metropolitana di Kiev o che in tutta l’Ucraina si stringono nei rifugi, pensando al pericolo imminente rappresentato dai bombardamenti e dai missili russi. Ma io, ormai un po’ per riflesso condizionato, pensando agli inevitabili assembramenti, mi sono invece chiesta quale sia la situazione attuale della pandemia in Ucraina.

La pandemia ucraina

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Ho così scoperto che nel paese occupato si è appena superato il picco più alto di casi dalla primavera 2020, con una media giornaliera su base settimanale di morti per Covid-19 sui 250 al giorno. Circa come da noi, ma su una popolazione di un terzo inferiore, circa 40 milioni di abitanti.

Sono quindi andata a controllare il tasso di vaccinazione, che purtroppo è molto basso. La campagna vaccinale è decollata tardi, e solo il 35 per cento circa degli ucraini ha già ricevuto entrambe le dosi del ciclo primario. Per proteggersi da omicron, soltanto poco più dell’un per cento ha ricevuto il booster, appena approvato. Dei 15 milioni di persone vaccinate, poi, quasi una su tre ha ricevuto Coronavac, il vaccino cinese a virus inattivato, di cui è ormai ben nota la scarsa efficacia.

Che cosa c’è da aspettarsi? Ora e nel prossimo futuro sarà difficile che dallo scenario di guerra possano arrivare dati affidabili sui contagi e sui decessi. Si ridurrà inevitabilmente la possibilità di eseguire test, la predisposizione dei cittadini a uscire per cercare aiuto e la capacità degli ospedali di accogliere i pazienti gravi. Mancheranno medicine e ci si dedicherà preferibilmente ai feriti.

L’eterna diatriba tra decessi per e con Covid si arricchirà di una nuova prospettiva: senza la guerra quel paziente Covid si sarebbe salvato? Quel ferito leggero, senza la complicazione della malattia, sarebbe guarito?

Il Covid può influire nella guerra?

Foto AP

Si parla spesso di come la prima guerra mondiale abbia favorito il diffondersi della cosiddetta influenza spagnola, la grande pandemia che spazzò il globo tra il 1918 e il 1919. Gli spostamenti delle truppe, la debilitazione data dalla fame e dalle privazioni tra la popolazione e i soldati, la censura militare che evitava una corretta informazione su quel che stava accadendo facilitarono sicuramente la vita al virus.

Ma pochi sanno che viceversa anche la malattia influì sull’andamento della guerra, soprattutto per l’imprevedibilità con cui interi reparti venivano improvvisamente messi ko dall’infezione, talvolta alla vigilia di battaglie importanti. Nel momento in cui le truppe statunitensi si preparavano a sferrare il loro attacco alla Germania, per esempio, più di un militare su quattro fu colpito dall’influenza e 30mila di loro morirono addirittura prima di sbarcare in Francia.

È ovvio che le situazioni non sono comparabili. Non ci aspettiamo una guerra di trincea. Rispetto all’inizio del secolo scorso, i conflitti moderni contano più sulla tecnologia che sul numero dei soldati disponibili, ma militari e osservatori forse farebbero bene a non dimenticare che sul campo c’è un altro, invisibile attore, del cui potere sempre troppo sottovalutato, negli ultimi due anni, abbiamo già fatto dolorosa esperienza.

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