Come ben sa chi segue assiduamente le elezioni europee, esse sono state usate da sempre come avvertimenti ai governi nazionali dagli elettori e come test di popolarità dai politici. Gli uni e gli altri le hanno impiegate strumentalmente per fini diversi da quello che hanno istituzionalmente: far eleggere i migliori rappresentanti possibili al parlamento europeo. Non c’è quindi da sorprendersi né da scandalizzarsi se Giorgia Meloni si è candidata in tutte le circoscrizioni pur sapendo che a Strasburgo non ci andrà.

Ma quanto da lei affermato, votate “Giorgia” per «mandare anche in Europa la sinistra all’opposizione», non è solo strumentale. Riflette soprattutto la visione errata di un’Europa inesistente, di una costruzione fantastica. E, come tale, esprime una promessa che la nostra premier non può mantenere e dovrebbe sapere di non poter mantenere.

“Opposizione”, infatti, non è un concetto applicabile al sistema politico europeo. L’esecutivo europeo consta di due organi appartenenti a circuiti istituzionali dotati di fonti separate di legittimità. Nel circuito intergovernativo il Consiglio è un organo confederale dove le decisioni vengono prese formalmente all’unanimità dai governi dei ventisette stati membri legittimati a livello nazionale. Questo fa sì che esso sia un organo di governo senza opposizione a livello europeo.

Nel circuito sovranazionale la Commissione è un organo tecnico nominato dal Consiglio il cui modus operandi è la collegialità e al cui interno le dinamiche partitiche sono irrilevanti. La legittimità della Commissione, un tempo fornita esclusivamente dai Trattati, è adesso rafforzata dall’approvazione del parlamento. Ma è questo un voto che ha una valenza unica e che non fornisce continuità alla maggioranza che lo esprime. Nel resto della legislatura, le maggioranze si formano ad hoc sulle singole decisioni. Ne consegue che non viene prodotta nemmeno una vera e propria opposizione, anche perché la natura plurale della società europea richiede ampie convergenze di tipo consociativo.

Anche la costituzione della mitica “maggioranza Ursula” servì solo a eleggere Von der Leyen e la sua Commissione, i cui componenti appartenevano a quattro distinti gruppi politici. Essa comprendeva anche un esponente del PiS polacco appartenente al gruppo conservatore, quello del partito europeo presieduto da Meloni. Per tutte le decisioni successive, di maggioranze se ne sono formate di diverse, anche se a volte simili tra loro, spesso con l’apporto di gruppi o partiti nazionali che della maggioranza Ursula non hanno fatto parte. Quindi, escludendo qualche sparuto parlamentare non iscritto ad alcun gruppo o qualche abbarbicata delegazione nazionale di Identità e democrazia che vota sempre contro, nessuno è permanentemente all’opposizione, e tutti contribuiscono, con frequenza variabile, al governo.

Dal punto di vista della teoria democratica, l’assenza della dinamica governo-opposizione è proprio uno dei motivi del deficit di democrazia del sistema politico europeo. La creazione di meccanismi di legittimazione permanente del governo da parte di coalizioni di partiti in alternanza tra loro sarebbe un modo per eliminare questa anomalia. Allora, per dirlo con Giorgia Meloni, l’Europa va cambiata. Sì, i più convinti europeisti lo pensano da tempo. Ma non nel modo sbrigativo proposto agli elettori italiani dalla leader di FdI e, in evidente seconda battuta, dei Conservatori europei. Per poter cambiare l’assetto dell’Unione in modo da permettere l’affermarsi di dinamiche di alternanza democratica che diano un senso anche a livello europeo ai termini “maggioranza” e “opposizione” ci vuole un nuovo trattato. I trattati però si approvano all’unanimità. E la sinistra, in alcuni dei governi nazionali ma anche nel parlamento, dovrà far parte di quella specifica maggioranza e non dell’opposizione. Ma gli elettori non importa che lo sappiano.

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