Il treno che porta da Torino porta a Novara e poi dopo vari cambi arriva a Vigevano «all’incontrario va», ma non nel senso immaginato dal paroliere Vito Pallavicini.

Un solerte bigliettaio spiega che «questa è la prima classe, la seconda è più avanti». Ad una prima occhiata l’unico elemento materiale che differenzia i due mondi è dato da un triste tavolino posto tra i sedili e un foglietto appiccicato alla porta d’accesso del vagone, recante la scritta “prima classe”.

Uguali i sedili di plastica blu, uguali le cappelliere, stesso frastuono. L’elemento che oggi differenzia la prima dalla seconda classe sui regionali veloci è umano: i lanzichenecchi. Si paga di più per non averli vicino.

Eccola Vigevano, la città fatta di un’azzurra nostalgia raccontata e cantata da Lucio Mastronardi. Ogni tanto la critica ci torna e racconta quegli anni attraverso la sua trilogia sulla gente di qua: il calzolaio, il maestro e poi il meridionale.

Fuori dalla stazione di Vigevano un gruppo rumoroso di africani parla in italiano mescolato a qualche lingua delle loro, e poco distante c’è il vigevanese, sebbene sia nato a qualche chilometro, Adriano Ballone, che condurrà un giro tra il passato il presente.

Storico dell’operaismo, nel 1988 scrisse un tomo spesso così dal titolo assai provocatorio Uomini, fabbrica e potere. Mancava quindi la sacra categoria, gli operai: o “operari” per dirla alla Mastronardi. Aldo Agosti ne firmò la prefazione: «Un’analisi molto realistica, attenta, più che all’identità dei valori che si presumono cementarne l’unità, alle profonde divisioni che la solcano».

Ballone fece infuriare il Pci perché in sostanza dimostrava che la figura mitica del movimento comunista, sopratutto quando ci sono guai, spesso tende a farsi gli affari suoi. Pensiero eretico, soprattutto laddove sostiene che nel ’43, a Torino, gli ultimi a incrociare le braccia furono quelli di Mirafiori. Ma cosa c’entrano Balloni e l’operaismo del dopoguerra con Vigevano?

La città che ha fatto l’Italia

Vigevano racconta perfettamente la trasformazione dell’intera società italiana, e in particolare della classe operaia raccontata da Mastronardi che voleva farsi industrialotta ma non borghese: e ce l’ha fatta.

«A me piace smontare»: si presenta così lo storico Adriano Ballone, già scolaro di Mastronardi, già maestro elementare e tanto altro.

E inizia a smontare: «Mastronardi oscura tutto il resto: ma il bello di Vigevano è molto altro. Questa cittadina ha fatto l’Italia che conosciamo come nessuna».

Cita due nomi ancora più dimenticati di Mastronardi: Tommaso Besozzi e Vito Pallavicini. Un giornalista e un paroliere, il primo passato alla storia per le sue inchieste sulla morte di Salvatore Giuliano, il secondo per aver fatto cantare l’Italia e il mondo.
Seduti nella spettacolare piazza porticata, così bella da essere perfino fuori scala – e la cittadina è un gioiello voluto da Ludovico il Moro – risulta curioso pensare che in fondo il vigevanese più famoso di tutti è però Alberto Sordi, interprete del maestro Mombelli, protagonista de Il maestro di Vigevano di Elio Petri, sostituto di un furente Ugo Tognazzi che definì Mastronardi «il Ligabue degli scrittori».

La piazza che nel film è solcata dal maestro Mombelli di Alberto Sordi era un garage a cielo aperto dove le macchine degli industrialotti venivano esposte con tronfia arroganza agli occhi degli “operari” che racconta così bene Ballone nel suo libro: quelli che si sono imposti, a cui della lotta di classe non interessava, e manco dell’unione dei lavoratori, quelli che volevano solo «laurà come bestie».

«Mungevano le mucche in qualche stalla, poi otto ore nelle fabbriche degli scarpari a fare pantofole e stivali, poi a casa a piantare chiodi nelle tomaie che producevano da soli», racconta.

L’autosfruttamento come valore unico: uomini, donne e bambini, battaglioni sterminati di migranti meridionali che hanno costruito l’enorme rendita con cui oggi sopravvive, nel nord devigevanevizzato – senza industrie, senza produzione – l’esercito dei nipoti che si barcamena tra lavori assurdi, lavori poveri e lavori inutili, tutti ben raccontati dal compianto antropologo anarchico David Graeber.

Altri livelli di capitalismo, dove ogni casa era una fabbrica «e nelle strade, giorno e notte altro non si sentiva che il batter ritmico dei martelli sulle suole: tac tac tac».

Opposizione totale

I libri di Mastronardi non sono romanzi: sono trattati di tutto ciò. La sua descrizione dei fenomeni migratori degli anni Cinquanta e Sessanta, ad esempio, sono lenti con cui comprendere perfettamente la questione migratoria odierna, in particolare l’inestirpabile fenomeno per cui i migranti appena usciti dalla povertà odiano i migranti che vorrebbero uscirne – migranti economici in neo lingua – e culturalmente sono in gran parte schierati con la destra sovranista.

Tratto da Il meridionale di Vigevano, Einaudi:

Incrociammo la fuoriserie di un industriale meridionale: – Quello è padron Pedale!  – disse Nicola.

 – Quello sì che son soddisfazioni: fa lavorare più di quattrocento operai proprio di qui, proprio settentrionali! – rispose Giuseppe.

- Pedale, meridionali non ne vuole nella sua fabbrica!

- Ma se lui è napoletano!

 – Appunto per quello – disse Nicola. – Nel suo ufficio sta un cartello. Sa che dice quel cartello? Vietato l’ingresso ai cani, ai porci, ai terroni!

Segue un passaggio dove i due alla fine convengono che l’industriale Pedale alla fine non è così cattivo, dato che i meridionali li prende, ma solo per fare i facchini, i lavori pesanti; spazzà la fabbrica.

Mastronardi è opposizione totale, poetica nera, un panorama di nequizia senza redenzione. Mastronardi deride e disprezza gli industrialotti, impensabile oggi, strapazza le operare e in generale la donna – Ada, la moglie del maestro Mombelli è un mostro che umilia l’umile marito perfino sul letto di morte, quando gli rivela, ridendo, che l’amato figlio Rino non è suo: una scena che ricalca fedelmente l’apice del “David Golder” di Irene Nemirowskj, a quel tempo ancora dimenticata - e umilia pesantemente anche la figura sacra, al tempo, del maestro elementare.
Mastronardi demolisce, e come lui nessuno dopo. Lo fa, per altro, con passaggi altamente comici, che ridicolizzano e umiliano intere classi sociali. Si ride molto grazie alle pagine della trilogia vigevanese: un tratto sconcertante perché sono condizioni tragiche, bestiali, squallide.

Chi lo fa oggi? Sarebbe come aggredire la categoria dei rider pakistani, e non solo, che vogliono uscire dalla povertà e si ammazzano di consegne. Oggi siamo molto più conformisti e tutti impauriti.

Calvino, suo mentore in Einaudi, che contiene la furia di Mastronardi grazie a una rilettura molto pignola, una volta lo rimbrotta duramente quando nei racconti che pubblica su L’Unità – Mastronardi si definiva reazionario – sbraca, e con toni che oggi sorprendono e sarebbero inaccettabili per chiunque si consideri “scrittore”, anche solo su facebook, gli scrive: «Mi pare che ti sei messo a vederti meglio degli altri: mentre la validità dei tuoi romanzi e racconti viene dal fatto che la miseria umana non risparmia nessuno, neanche te stesso, e il fatto che lo sai ti permette di sfottere e condannare, non una tua superiorità. Un caro saluto». 

Il paroliere dimenticato

In questo contesto indurito fatto di lavoro e basta che ispirava il curaro di Mastronardi, per le vie della Vigevano del tempo girava un altro personaggio straordinario, ancor più dimenticato. Il paroliere Vito Pallavicini, nato e morto a Vigevano, autore di testi che hanno fatto la storia della musica italiana: Azzurro, quella di rottura Le mille bolle blu, poi Messico e nuvole (cantata da Jannacci) e Nostalgia canaglia.

Detiene il record di testi di canzoni presentate a Sanremo e proprio negli anni del furore di Mastronardi, il paroliere presentava al festival della canzone quattordici brani.

I due non avevano un buon rapporto. Prima di essere un paroliere Pallavicini fu giornalista de L’informatore vigevanese, e non lesinò critiche pesanti.
Ma i due furono i volti dello stesso mondo: arrabbiato lo scrittore, allegro ma anche malinconico il secondo, che dopo il successo si trasferì a Parigi ma il fine settimana tornava nella sua cittadina.

Pochi anni, una concentrazione di vicende culturali in pochi chilometri quadrati: perché? Una città campione, come scrisse Giorgio Bocca.

La potenza della provincia contadina, operara e industrialotta? Anarco capitalismo e immigrazione selvaggia? Il mistero di Vigevano rimane.


Azzurra Nostalgia, effigie edizioni, è un libro di Adriano Ballone pubblicato nel 2019.

Lucio Mastronardi e gli altri di Vigevano sono i protagonisti di storie locali che hanno fatto e raccontato l’Italia. Scritto come un romanzo, ma ricchissimo di preziosi documenti storici, aiutano a comprendere, aiutano a capire cosa sia il mitologico “cambiamento”, quanto dolore comporti e quanta nostalgia non riesca a eliminare mai completamente.

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