Quando Colombo e i suoi compagni sbarcarono sulle sponde di quello che qualcuno avrebbe poi chiamato Nuovo mondo non erano soli. A vederli toccare terra vi era, stupito, un gruppo di indigeni rimasti anonimi. Chissà cosa pensarono, chissà come lo raccontarono.

Il nome della festa

Quell’approdo del 12 ottobre 1492 fu ufficialmente festeggiato per la prima volta nel 1792, poco dopo la nascita degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776). Per un paio di secoli non ci si è preoccupati della correttezza di quella scelta celebrativa, con i tempi lenti della storia, però, qualcosa è cambiato.

Negli anni Novanta del Novecento, infatti, un numero crescente di stati americani ha preso a sostituire il cosiddetto Columbus day con l’Indigenous peoples’ day. Il primo governatore a ufficializzare il cambio di denominazione è stato nel 1990 quello del Sud Dakota, quarto tra gli stati dell’Unione per numero della popolazione di nativi americani. I primi tre sono Alaska, Oklahoma e New Mexico.

Oggi la geografia delle celebrazioni del 12 ottobre è davvero frastagliata, nell’alternanza tra posti dove si continua a omaggiare il nome di Colombo, dove si ricordano indigeni e native people, dove non si fa proprio nulla, dove le cose cambiano da luogo a luogo. Per esempio, in California a Berkeley, Los Angeles, San Luis Obispo e South Lake Tahoe si festeggia l’Indigenous peoples’ day; a Santa Barbara, San Francisco e Sacramento lo si unisce all’Italian heritage day. In Colorado, invece, gli onori del primo lunedì di ottobre sono per la missionaria Francesca Saverio Cabrini, prima cittadina statunitense (naturalizzata, era nata in Italia) a essere proclamata santa (1946): la scelta è del 2020 ed è l’esito di trent’anni di dibattiti volti a individuare chi potesse fare da contraltare a Colombo.

Insomma, una geografia complessa. Alla base di questa complessità sta la percezione dell’inopportunità di dare risalto al punto di vista di quelli che erano a bordo delle navi. Al contrario, la voce andrebbe restituita a chi stava sulla spiaggia e vide sopraggiungere una disgrazia, senza rendersene conto. Loro erano lì ben prima della traversata atlantica di Niña, Pinta e Santa María, non avevano alcun bisogno di essere “scoperti”.

L’arrivo del maiale

Oltre agli uomini (non c’erano donne in quel primo viaggio) sull’isola di Hispaniola sbarcarono oggetti, semi, animali; all’esito delle traversate successive, sempre più frequenti, si impose per dimensioni e rilevanza lo scambio alimentare. Sono abbastanza noti i racconti legati all’importanza del cavallo per i successi militari europei nelle Americhe: i cronisti dei primi grandi scontri tra spagnoli e aztechi ci raccontano di come gli indigeni pensassero che l’uomo in sella fosse un mostro capace di divorare il nemico. Il cavallo era troppo prezioso per essere mangiato, e alcuni storici sostengono che proprio a causa della sua commestibilità il maiale, un altro animale fino allora sconosciuto oltreoceano, fu per quella storia persino più decisivo del cavallo. Non il maiale un po’ goffo e grasso a noi noto dagli allevamenti del XXI secolo, ma una bestia che sbarcata sulle coste americane faceva in fretta a diventare veloce, resistente, agile e, soprattutto, autosufficiente.

I suini popolarono le stive delle navi cinque-seicentesche, senza certo suscitare l’entusiasmo di chi doveva badarci. Immaginiamo spazi occupati, cura richiesta, odori prodotti. Del resto, erano indispensabili perché a fine traversata avrebbero assicurato ottimo cibo. Viaggiatori capaci di pensare in prospettiva e con un po’ di altruismo inaugurarono pure l’usanza di lasciare coppie di porcelli nelle isole più isolate. Lo facevano perché si moltiplicassero e fornissero nutrimento ai futuri navigatori.

Le bestie abbandonate si moltiplicarono, adattandosi all’ambiente meglio pure dei colleghi uomini, anche perché impararono molto prima di loro ad apprezzare il mais. I colonizzatori impegnati nell’esplorazione si muovevano in gruppi più o meno numerosi, fiancheggiati, anche, da mandrie di maiali. Molti, tanto che in buon numero si staccavano dalla comitiva per avventurarsi in una vita allo stato brado. Scorte di carne ambulante talmente ricche da sembrare inesauribili. Non come le volatili risorse alimentari di molti gruppi indigeni, che prima di imparare a convivere con il suino d’oltremare dovettero, talvolta impotenti, guardarlo saccheggiare campi e pascoli, rubare il loro cibo senza saziarsene mai. Il maiale causò carestie e si fece pure portatore malsano di microbi e batteri. Come l’uomo.

L’altra prospettiva del viaggio

Nell’altro mondo ci si nutriva dunque con il mais, pianta erbacea che fece presto a diffondersi in Europa, percorrendo l’Atlantico a rotta invertita da quella scoperta, in questo caso il termine è opportuno, da Colombo. E come il mais tanto altro cibo, soprattutto vegetale: patate, pomodori, cacao, zucche, l’oggi tanto amato avocado, ma non dimentichiamo un animale, il tacchino. Fu una rivoluzione globale per la cultura alimentare, destinata a ridefinire costumi e tradizioni grazie a uno scambio generoso, che possiamo addirittura definire virtuoso, visto l’arricchimento di possibilità e risorse che ne derivò.

Con il passare dei secoli, a valicare l’oceano sarebbero stati (in maniera meno virtuosa) anche i modelli alimentari, come quello del mangiare veloce, l’americanissimo fast food. Alla voce neologismi, il vocabolario Treccani della lingua italiana dal 2008 definisce la parola mcdonaldizzazione come «espansione colonialistica, penetrazione capillare basata sulla capacità di suggestione, che produce un appiattimento culturale a livello mondiale». Niente a che fare con i panini, dunque.

La storia dell’alimentazione ha parlato di «mcdonaldizzazione dei costumi» prima ancora dell’istituto Treccani. Non si tratta solo di riconoscere la diffusione della formula standard pane-hamburger-ketchup-patatine fritte inventata dai fratelli Dick e Mac McDonald nel 1948 (avevano iniziato con gli hot-dog di maiale dieci anni avanti), portata poi al successo prima americano e poi planetario da Ray Kroc.

Come se fosse stato trasportato nella stiva di un’immaginaria caravella, il fast food di ispirazione statunitense arrivò in Europa occidentale tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta: il primo McDonald in Europa è stato aperto nel 1971 a Zaanden. Per l’Italia ci è voluto tempo, fino al 15 ottobre 1985, quando l’hamburger americano è sbarcato a Bolzano. Fin dagli anni Cinquanta negli Stati Uniti c’era una notevole familiarità con catene in franchising, presenti in enormi centri commerciali strategicamente collocati lungo le strade ad alta frequentazione o nelle popolatissime periferie delle metropoli. Qui si mangiava, tanto velocemente da poterlo fare senza sedersi, ogni sorta di piatto: non solo panini, dunque, ma anche pizze, tortillas, tacos, noodles, falafel. Alla ristorazione si stava applicando il modello cosiddetto taylorista-fordista, basato su divisione e razionalizzazione del lavoro.

Da Burger King a fine anni Ottanta si pubblicizzava con orgoglio la capacità di servire un pasto completo in quindici secondi. Gli storici si chiedono se ci siano avvenimenti capaci di cambiare il mondo in un giorno, addirittura un’ora. Per i tempi recenti possiamo pensare alla caduta del muro di Berlino del 1989, agli attentati dell’11 settembre 2001, persino alla comparsa di Covid-19. Fu il 12 ottobre 1492 uno di questi momenti?

Ci sono invece grandi cambiamenti per i quali non possiamo indicare alcuna data decisiva, come ci raccontano le vicende alimentari degli ultimi cinque secoli abbondanti. La storia serve ad avere consapevolezza dei mutamenti di lungo periodo a capire che il qui e ora è il prodotto del laggiù e allora, che la conoscenza delle dinamiche di medio e lungo periodo consente di orientare le scelte per il presente e il futuro. Per tutto questo non è fondamentale festeggiare, ma esercitare la memoria, sì che lo è.

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