Disposti lungo il bordo del corpo, la conchiglia di san Giacomo, o capasanta, può avere moltissimi occhi: decine, persino centinaia. Al loro interno si trovano specchi, fatti di minuscoli cristalli, che puntano la luce sulle due retine di cui ogni occhio è dotato. Com’è ovvio, la percezione visuale, ammesso che di vista possa parlarsi, è molto diversa da quella umana: la capasanta non elabora immagini, ma percepisce movimento. Ogni occhio, indipendente dagli altri, è un sofisticato rilevatore di moto, che, quando distingue qualcosa di potenzialmente utile per la sussistenza, come ad esempio una particella di plancton, invia un segnale affinché l’intero organismo indaghi meglio. Non sorprende, quindi, che il mondo della capasanta sia diverso dal nostro e che, se dovessimo incappare nei modelli scientifici messi a punto dal pregiato mollusco, non vi ritroveremmo nulla di sensato. Ma non per questo potremmo definirli erronei.

Beninteso: una tale conclusione non è l’atto di negromanzia che resuscita le convulse “guerre culturali” del tardo Novecento, conclusesi da tempo a tutto vantaggio della scienza. Vivaddio, oggi nessuno direbbe che la scienza è tutta interpretazione e niente fatti e che le ipotesi scientifiche dell’argopecten irradians possano vantare una pretesa di verità solida come quelle dell’homo sapiens.

Costruire il senso

Con ben più umiltà e rassegnata fede scientista, la conchiglia di san Giacomo è solo un esempio tra migliaia per spiegare come la costruzione del senso che gli esseri umani danno alle cose dipenda dalla loro costituzione corporea. E lo stesso vale per le scienze cosiddette dure. La mente umana restituisce un’immagine della natura e dell’universo che s’ingrana nella costituzione organica dei nostri strumenti percettivi e di quelli con cui ci muoviamo e agiamo nello spazio. Questa la morale tutta intramondana del libro del fisico teorico Ulf Danielsson, Il mondo in sé. La coscienza e il tutto nella fisica (Einaudi, 2023): «Non si può mai intendere la coscienza come isolata dal corpo o dall’ambiente».

Con il richiamo al corpo e alla sensorialità, Danielsson vuole indurre in noi quel grado di sospettosa cautela che alcunə suə colleghə di settore aspirano ridurre a zero quando offrono dell’universo immagini mirabolanti e controintuitive: il mondo che si duplica a ogni evento per il quale si prevedono almeno due esiti alternativi; macchine pensanti che prendono a ragionar di loro stesse e a forgiarsi una vita morale; il cervello nostro che, dentro una vasca, è attaccato a tubi di alimentazione perché continui a illudersi che il corpo di cui è ospite, e il mondo che ospita il corpo, esistano davvero. Teorie molto suggestive, ammette Danielsson, ma tutte inclini a uno sbalzo percettivo che nella vita di ogni giorno varrebbe una diagnosi di psicosi paranoide: queste teorie scambiano il modello dell’universo su cui si fondano per l’universo vero e proprio.

Natura e teoria

In modo assai disinvolto, tipico del teorico di tutto punto che sa ben navigare la divulgazione, l’autore prende posizione su questioni controverse e tutt’altro che aggiudicate nel campo della filosofia, come lo statuto delle leggi di natura e l’esistenza delle entità matematiche. L’errore tutto egotico delle teorie fisiche più spericolate è che trattano delle leggi di natura come se esistessero indipendentemente dalla teoria che le formula. Allo stesso modo, considerano la matematica come qualcosa che gode di un’esistenza propria, indipendente dal nostro far di calcolo. All’opposto, secondo Danielsson, leggi e numeri non sono altro che il modo con cui, data la nostra costituzione corporea e sensoriale, ci facciamo un’immagine del mondo per tentare di decifrarne i meccanismi e predirne gli esiti. Si può comprendere pertanto il titolo del libro: un conto è “il mondo in sé”, vale a dire quella serie di processi tutti materiali (e solo materiali) che hanno corso indipendentemente da esseri umani o capesante; tutt’altro conto è il modello con cui esseri umani o capesante, cioè organismi situati nel tempo e nello spazio, ricostruiscono quei processi con strumenti formali. L’errore fatale di molte teorie fisiche sta nella conflagrazione tra i due piani, che le induce a confondere i loro elaborati modelli formali con il mondo che essi intendono spiegare. Di qui nasce la pronunciata cifosi per cui la testa di chi fa teoria smette di guardare dritta al mondo e si curva per rivolgersi verso sé e immaginarsi infine tutt’uno col mondo. È a quel punto che il formalismo matematico s’ammala di quella festosa sovrabbondanza di elementi favolistici, utili a divertire o inquietare, ma per nulla aderenti al mondo in sé.

Si pensi all’apologo del fisico tedesco Erwin Schrödinger, che nel 1935, per illustrare i paradossi della meccanica quantistica quando applicati a fenomeni macroscopici, scatenò l’omicidio seriale di un’infinità di gatti, tanto celebre e ribadito il racconto: un gatto in una scatola ha una probabilità su due di morire nel caso un fenomeno quantistico si verifichi e scateni una reazione venefica. Secondo l’interpretazione prevalente della meccanica quantistica, finché non apriamo la scatola per osservare l’accaduto, il gatto è in uno stato di “sovrapposizione”: gatto-vivo e gatto-morto.

Tra mondo e immagine

Nel 1957, il fisico statunitense Hugh Everett, benché imberbe, ebbe l’ardimento di risolvere il paradosso con una mossa che non difettava di fantasia. Non c’è alcuna sovrapposizione di stati del gatto, ma l’universo intero che quando si apre la scatola si divide in due: un universo dove il gatto è vivo e uno dov’è morto. Ed è un tripudio di mondi in ogni dove: un elettrone che ora in una galassia remotissima si trovi a dover intraprendere due o più percorsi quantistici provoca la scissione dell’intero Universo, ivi compresə chi qui scrive e legge. Esiste così una varietà infinita di universi che si ramificano a ogni possibile soluzione di ogni evento quantistico; e siccome il mondo, in ogni sua singola componente, è quantistico, si capirà che il conto è complicato.

Danielsson tratta detta ipotesi come l’incomodo residuo di una visione sacrale e un po’ superstiziosa della matematica, i cui paradossali contorcimenti vengono fatti prevalere sulla nuda realtà dei fatti. Da un tale sopravanzo di cecità sanfedista ci si libera solo con il laicismo del mondo in sé: «Se, come me, credete nell’esistenza di un universo materiale indipendente dal formalismo matematico, non c’è motivo di credere che esista più di una realtà».

Non sono certo che il richiamo all’evidenza sia un buon argomento, dato che, da che mondo è mondo, le teorie sono fatte per rivelarci gli inganni dei sensi (oltre al fatto che chi scrive aderisce ad ontologie persino più stravaganti). Nondimeno, quanto più rileva nel ragionamento del fisico svedese è un’intuizione che vale tutto il libro: qualsiasi teoria è un sistema di simboli che «vengono collegati al mondo reale o, più precisamente, a certi aspetti che selezioniamo e astraiamo». Detto altrimenti, non si dà un punto di vista sopra-organico che, come archimedea leva per il paradiso, ci restituisca un sapere disincarnato. Il rapporto di insopprimibile tensione tra il mondo e i simboli, quello che genera ogni tipo di bizzarria filosofica, è dovuto al fatto che abbiamo occhi, mani, naso, bocca, orecchi, insomma un corpo, che costituisce un ineliminabile punto prospettico, dunque limitante.
Ma è proprio questo, in fondo, che permette alla conoscenza umana di evolvere e progredire: presentarci con sempre maggiore puntualità all’incontro sempre mancato tra il mondo e la nostra immagine di esso.

E se questo di per sé non smentisce alcuna teoria, ha però ragione Danielsson: la corporeità e la situatezza sono dati non trascurabili quando ci incoroniamo eteree divinità capaci di descrivere l’universo meglio di qualsiasi altra creatura. E forse, proprio come la capasanta, tutto quel che interessa noi esseri umani è procurarci strumenti sempre più sofisticati per cogliere finanche il più impercettibile movimento delle nostre prede.

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