Quando, nella notte tra domenica e lunedì, si è aperto il sipario al Dolby Theatre di Los Angeles e il presentatore Jimmy Kimmel ha dato il via alla novantacinquesima edizione della cerimonia di consegna degli Oscar, in una casa di Bologna un gruppo di bambine si è ritrovato davanti alla televisione, con il permesso dei genitori e senza la preoccupazione della scuola l’indomani. Perché, al di là dell’esito, è stata anche la loro notte, tappa massima di un percorso iniziato poco meno di due anni fa e che le ha idealmente, se non fisicamente, portate fino in California, per una favola che solo con l’ingenuità dell’età si può vivere come un gioco.

Loro sono “Le pupille”, protagoniste del cortometraggio (37 minuti) di Alice Rohrwacher dallo stesso titolo entrato in nomination per la prestigiosa statuetta nella sua categoria (per la cronaca è stata vinta da An Irish Goodbye di Tom Berkeley e Ross White).

Il film è spirato, molto liberamente, a una lettera che Elsa Morante scrisse al suo amico Goffredo Fofi il 21 dicembre 1971. Erano auguri di Natale, impreziositi dal racconto di un «fatto vero almeno in parte e fino a un certo punto», come precisa la grande scrittrice. Una storia di 50 anni prima avvenuta in un collegio di preti (o di frati).

Tutto gira attorno a una zuppa inglese, preparata per il 25 dicembre, e che dovrebbe rendere più lieve quella giornata particolare quando più si avverte l’assenza di una famiglia. Il priore chiede un fioretto, la rinuncia alla loro fetta di torta per offrirla a Gesù se sono «bambini buoni». Uno, Egidio (una citazione del Manzoni e del suo sciagurato Egidio?, ah, saperlo!), si rifiuta autocertificandosi «cattivo». Il priore non potrà così offrire la zuppa intonsa alla badessa come era nelle sue intenzioni. Ma chi è davvero il cattivo?

Piccole fanciulle

Quando Alfonso Cuaròn, qui produttore con il sostegno della Disney, ha ideato una serie di corti sui tempi delle feste di fine anno e ha ingaggiato per prima Rohrwacher, lei ha pensato subito al carteggio di Morante, prendendosi la libertà di trasferire la vicenda in un orfanatrofio femminile durante il fascismo, la Seconda guerra mondiale, perché «sentivo proprio la necessità di dar voce ad alcun bambine».

Egidio è diventato Serafina, in realtà, ha spiegato la regista, «una piccola niente affatto cattiva, soprattutto molto coerente, le hanno detto che è cattiva e lei ci crede, quello che vuole è però solo rompere il potere della madre superiora che si tiene tutto per sé e condividere il dolce con le sue compagne».

Pupilla è il termine latino che significa “piccola fanciulla”. Andavamo trovate queste “piccole fanciulle”, protagoniste della pellicola almeno quanto acclamate attrici come Alba, la sorella della regista, Valeria Bruni Tedeschi, Greta Zuccheri Montanari. E andavano trovate nell’area di Bologna, città scelta come set nell’autunno del 2021, tra il portico di san Luca, l’ex chiesa di san Barbaziano e il pio istituto delle Sordomute povere.

Siccome il cinema regala prodigi, qui nasce una piccola-grande storia di provincia, di quella provincia italiana che nasconde gemme preziose e produce cultura diffusa lontano dai grandi centri. Una ricchezza nazionale da preservare con cura.

L’avventura è diventata un film acclamato nell’ultimo festival di Cannes dove è stato presentato in anteprima. E fosse solo il prodotto artistico. Ha fatto nascere una comunità di bambine diventate amiche, di genitori che si frequentano e vanno persino in vacanza insieme, come insieme hanno condiviso l’esperienza sulla Croisette: un viaggio collettivo tra lo stupore e il disincanto perché sono consci che questa è una meravigliosa parentesi e così la stanno cercando di far vivere alle figlie.

Bambine cattive

Alice ha dedicato la sua fatica «a tutte le “bambine cattive” che lottano nel mondo in Iran, in Afghanistan ma anche in Umbria o Svezia, soprattutto oggi che possono rompere la torta e condividerla». Un chiaro messaggio politico, il desiderio di vedere infranto il soffitto di cristallo che qualche incrinatura la sta avendo ora che c’è una donna alla presidenza del Consiglio e un’altra è la principale leader dell’opposizione. 

Avrebbe voluto, la regista, portare le sue pupille a Los Angeles: troppo complicato. Sono rimaste a Bologna, mentre a 120 chilometri di distanza, in un edificio di colore verde a Santarcangelo di Romagna sulla via Emilia, una sorta di fans club, tra cori musica e qualche birra, ha trascorso la notte a fare il tifo.

Nel palazzo verde c’è la sede di una accademia di recitazione dal nome che evoca De Gregori “La valigia dell’attore”, fondata nel 2016 dall’attore, regista e sceneggiatore Samuele Sbrighi. Da questa scuola è uscita infatti una delle pupille, una co-protagonista, Maria Renata Corelli, di Cesenatico, 9 anni non ancora compiuti, ne aveva 7 quando tutto è cominciato.

La recitazione, per lei è «un modo per passare il tempo d’estate», perché «non mi piace fare nessuno sport». Ha dovuto superare tre provini per entrare nel fortunato cast. Tra qualche dubbio dei genitori, la madre architetto ed ex giocatrice di basket in serie B, e il padre titolare di un’enoteca.

«Poi», racconta mamma Agnese, «abbiamo vinto le titubanze e abbiamo inviato il video che ci avevano chiesto, fatto in modo amatoriale, con un cellulare». Tutto è corso veloce da quel momento, la chiamata a Bologna vissuta come una gita, l’accoglienza amorevole, la scelta, il set cosparso di giocattoli per mettere a loro agio le bambine. Anche qualche piccolo inciampo quando Maria Renata avrebbe dovuto andare in scena con un cane «e a me fanno paura» (una paura che le è già costata una parte in un altro film per cui era stata selezionata). 

Quando un set si smonta è come se finisse una storia totalizzante vissuta molto intensamente. Ognuno torna alle proprie occupazioni. Maria Renata alla sua scuola elementare senza far menzione ai suoi compagni di quanto le era capitato, «ma poi lo hanno scoperto e sono felici per me». Nella terra di Federico Fellini non può passare inosservata una bambina con una parte rilevante in un film invitato ai migliori Festival.

Santarcangelo di Romagna

Che il cinema per Maria Renata sia una carriera possibile ovviamente non è importante e soprattutto è sciocco chiederselo. Di sicuro non avrebbe mai incontrato la recitazione, e dunque non avrebbe avuto un’opportunità, se Samuele Sbrighi, attore, regista, sceneggiatore, dopo tanti girovagare, una volta diventato padre, non avesse deciso di tornare, a 37 anni, al suo paese d’origine, Santarcangelo di Romagna, per poi fondare nel 2016 la sua accademia.

Santarcangelo, non un borgo qualsiasi ma, ecco come lo dipinge, «una terra fertile dove ogni angolo sprizza poesia, qualcosa di insediato nel dna, una sensibilità per l’arte molto accentuata». In effetti qui resiste un Festival di teatro estivo nato nel 1971 e punto di riferimento per le avanguardie di settore di tutto il mondo, e che ha esteso le sue attività lungo tutti i dodici mesi. Ha dato i natali a diversi personaggi illustri come lo sceneggiatore per tanti grandi registi Tonino Guerra, i poeti Raffaello Baldini e Nino Pedretti, gli attori Daniele Luttazzi, Fabio De Luigi, Paolo Carlini, il filologo Augusto Campana. 

Samuele aveva debuttato nel cinema all’età di 4 anni (dunque ancora più precoce di Maria Renata), una scena con Roberto Benigni in Chiedo asilo, poi tra gli 8 e i 10 ani gli spot pubblicitari, a 12 pianoforte e solfeggio. Quindi il diploma all’Accademia di arte drammatica di Bologna e gli studi di recitazione al Centro di cinema e teatro Duse di Roma. In curriculum decine di film, serie tv, persino soap opera.

Nel breve volgere di sette anni la sua Accademy è decuplicata, da 12 a 120 allievi tra piccoli e adulti, molti dei quali arrivano da ogni parte d’Italia, segno del prestigio raggiunto dalla scuola se dai suoi corsi sono usciti diversi attori ingaggiati da produzioni nazionali e internazionali. La sua notte da Oscar è stata tanto più fausta perché inattesa. Comunque vada sarà un successo, in questo caso, non è una frase fatta.

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