Non si comprenderà mai davvero il fenomeno delle Brigate rosse – che oggi appare così lontano da sembrare il miraggio di un’altra epoca, più astratta e selvaggia di questa – senza partire da una considerazione che nel nuovo libro di Sergio Luzzatto (Dolore e furore, Einaudi 2023) compare già nella seconda pagina del prologo: «Allo sguardo di chi si sentiva – in un modo o nell’altro – un militante per il comunismo, quei sei mesi dell’autunno caldo del 1969 avevano dischiuso la prospettiva concreta, o addirittura imminente, di una rivoluzione vittoriosa».

È un errore, ed è inevitabile: guardiamo sempre la storia col senno del poi, come in un film di cui conosciamo già il finale. Ogni volta che torniamo a esaminarla ci sembra che il destino non potesse che essere quello.
Seguiamo i protagonisti già sapendo il fallimento che li aspetta, leggiamo il loro percorso alla luce della buca in cui già sapremo che cadranno.

I personaggi di quel periodo ci sembrano oggi degli insetti ciechi, impegnati in una battaglia che solo una fantasia troppo puerile poteva credere possibile: falene impazzite bruciate da una luce che non poteva non abbatterli. Il lungo decennio di vita delle Brigate rosse – dall’autunno del 1969 alla fine del 1980 – corrisponde a questa sfasatura di percezione: un pezzo di generazione, composto perlopiù di giovanissimi, che in un paese a capitalismo avanzato decide di imbracciare le armi per innescare una rivoluzione proletaria.

La rivoluzione, comprensibilmente, non arriva, e quei ragazzi convinti di essere partigiani si ritrovano ad essere “solo” degli assassini. Lo storico di quel periodo deve pulire quelle vicende dal destino che, in qualche modo, le ha montate, e interrogare quei ragazzi fuori dalla ferrea tragedia che li ha inghiottiti.

Vivi solo pochi giorni

Chi erano quei ragazzi? Non certo, come spesso si dice, le marionette di una qualche occulta dietrologia internazionale. Piuttosto, giovani del loro tempo, ognuno con la sua spesso disastrosa peripezia individuale. Quali intenzioni li animavano, quali speranze li muovevano? Che sofferenze li agitavano, che gioie li facevano trasalire?

Livio Baistrocchi, brigatista latitante di cui non si sa oggi nemmeno se sia vivo o morto, quand’era ancora un animato militante del Partito comunista ebbe a dire: «Siamo vivi solo pochi giorni all’anno, di scatto». Due anni dopo sarebbe entrato in clandestinità. Bisognerà capire, allora, che entrare nelle Brigate Rosse dovette essere per alcuni non un farneticante delirio, ma un disperato esperimento di felicità, il tentativo folle di «vivere tutti i giorni dell’anno». Anche se quel “vivere” ha significato, a volte, il morire di altri.

Ritratto

Riccardo Dura (foto ANSA)

Il libro di Sergio Luzzatto – un libro che, lo diciamo da subito, costituisce un capitolo inaggirabile per chi voglia capire il fenomeno delle Br – ha innanzitutto il merito di rispondere a questa domanda: chi erano queste persone?

Ne emerge una galleria di personaggi, primo tra i quali il più sconosciuto e fantasmatico tra tutti i brigatisti, Riccardo Dura: trentenne capo della colonna genovese, morto nella strage di via Fracchia e quindi – così come la fondatrice Mara Cagol – scomparso prima ancora di poter diventare quel personaggio così tipico del panorama italiano che è l’“ex-terrorista”, irriducibile o dissociato che sia.

Riccardo Dura è un eterno giovane mai diventato adulto, un fantasma di ragazzo incastrato nel passato. Un personaggio di cui finora non si sapeva nulla o quasi, e di cui Luzzatto ha il merito di ripercorrere l’esistenza intera: l’infanzia difficile nei quartieri popolari di Genova, l’abbandono del padre prima e della madre poi; una trafila di ricoveri psichiatrici, e un’adolescenza vissuta in un luogo distopico come la nave-riformatorio Garaventa.

Un ragazzo che diventa portuale e operaio marittimo, un marginale senza nome, un umiliato e offeso come tanti che però, a un certo punto del suo vagabondare, incontra le Br. E la sua vita cambia. Entra in clandestinità, rischia tutto. Inizia a sparare.

È sua la mano che ucciderà il sindacalista Guido Rossa: l’operaio dell’Italsider accusato di aver denunciato un compagno sospetto di brigatismo, il 24 gennaio 1979.

È l’episodio che segna la fine delle Brigate Rosse, o perlomeno il loro definitivo scollamento dalle fabbriche e dagli operai, inorriditi che si potesse arrivare a giustiziare un compagno, un lavoratore, uno di loro. Il funerale di Guido Rossa, in una piazza De Ferrari gremita sotto la pioggia battente, è uno di quei momenti che segnano un prima e un dopo.

Da quel giorno, la storia delle Br diventa una vicenda autoreferenziale sanguinosa ed esclusivamente militare: una selvaggia guerra privata con lo Stato. «A quel punto», scrive Luzzatto, «la via italiana a una rivoluzione comunista si mostrò definitivamente per quello che era. Seminata di insidie, di scorciatoie, di trappole. Battuta dal fuoco amico, oltreché dal fuoco nemico. Ingombra di morti, e senza neppure le ombre di un sol dell’avvenire». Fu a quel punto che la storia, che in molti fino ad allora avevano considerato ancora indecisa e in bilico, si cementò in destino.

Genova al centro

Un destino che si giocò in larga parte proprio a Genova, grande teatro e città-palestra della lotta armata. È forse per la prima volta che, nella storiografia brigatista, il baricentro dell’analisi non è Milano (dove le Br sono nate) né Torino (teatro delle lotte della Fiat e del primo grande processo), ma Genova.

Genova è la città del primo sequestro prolungato, quello del pubblico ministero Mario Sossi (1974). A Genova avvengono i primi omicidi deliberati, vittime il procuratore generale Francesco Coco e gli uomini della sua scorta (1976). A Genova avviene il primo attentato a un esponente politico del Pci, con la “gambizzazione” del dirigente dell’Ansaldo Carlo Castellano (1977).

A Genova si consuma la strage di via Fracchia, quando in circostanze ben poco chiare gli uomini del generale Dalla Chiesa – dietro imbeccata del pentito Patrizio Peci – fecero irruzione in un appartamento dove dormivano quattro brigatisti, giustiziandoli tutti e quattro, il 28 marzo 1980.

«Ricostruire la vicenda delle Brigate Rosse attraverso il prisma di Genova», scrive Luzzatto, «equivale a misurarsi con l’alfa e l’omega dell’intera storia».

Ciò che non sa 

Riccardo Dura non è l’unico personaggio ritratto in questo libro. Altri ne compaiono di estremamente interessanti – dall’italianista accademico Enrico Fenzi, raffinato petrarchista al servizio della lotta armata al suo ambiguo cognato Giovanni Senzani, sociologo brigatista e contemporaneamente consulente del Ministero; dalla cattolicissima Vicky Franzinetti alla 79enne Caterina Picasso, «la nonna delle Br», che a Rivarolo Ligure gestiva uno tra i più importanti depositi di armi.

Ma Dura è senza dubbio il più pregnante, il più centrale: il più paradigmatico. La breve e violenta vita di Riccardo Dura funziona come una parabola, il ritratto del Jesse James che l’Italia poteva permettersi: un teorema disperato che dimostra come lì dove alberga il dolore si annida anche il furore.

Ed è abbastanza indimenticabile una lettera, finora inedita, che Riccardo Dura scrive a sua madre, e che Luzzatto scopre e pubblica nella sua interezza all’interno del libro. Quella lettera costituisce il cuore sofferto e segreto di questa vicenda. Una lettera terribile e commovente, scritta da un semianalfabeta a cui l’ultrasinistra genovese ha saputo offrire non solo una casa, una famiglia e una (pur terribile) ragione di vita, ma anche qualcosa di più prezioso e, insieme, più pericoloso: un linguaggio. Parole con cui provare a dire qualcosa che – per dirla con Pasolini – esprimono la voce di chi, in quella generazione come in questa, «è ciò che non sa».


Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse (Einaudi 2023, pp. 760, euro 38) è un libro di Sergio Luzzatto

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