Non sono uno di quelli che ce l’hanno scritta nel Dna, la carriera accademica. A parte l’abitudine alla lettura (che ho mantenuto nonostante non la condividessi con nessuno dei miei amici e nonostante mio padre le fosse apertamente ostile), sono stato uno studente universitario piuttosto mediocre.

La mia unica forza era il mestiere. Intuivo fin dall‘inizio quello che un professore voleva sentirsi dire, e studiavo solo le cose che mi servivano per dire esattamente quello, non una parola di più. Avevo il fiuto di capire quali lezioni frequentare e a quali lasciare la firma di presenza e poi dileguarmi, presentivo quali libri in programma si dovessero leggere e per quali bastava la quarta di copertina, e sapevo individuare un colpo sicuro la studentessa con gli occhiali a cui chiedere gli appunti.

Una tesi su Kafka

Alla fine ho galleggiato quasi sempre così, profondendo molta più energia e materia grigia nel capire cosa potessi evitare di fare che nel fare qualcosa. Mi sono laureato in Lettere, poco più di un decennio dopo l‘iscrizione, con una tesi su Kafka, un po‘ perché l‘esame di letteratura tedesca era uno dei pochi che avevo studiato con piacere, e un po‘ perché il professore era un vecchietto minuscolo e appassionato che mi aveva fatto subito simpatia.

La tesi non era un capolavoro, però tutto sommato è stata la parte più gradevole dell‘università. Talmente gradevole che me la sono portata dietro per quasi tre anni, e nel frattempo ho pure dovuto cambiare relatore perché il vecchiotto minuscolo e appassionato è morto.

Alla fine ho discusso la tesi con il nuovo ordinario di letteratura tedesca: un maschio alfa di mezza età altissimo e sempre incazzato con cui è stata insofferenza reciproca a prima vista. Dopo la discussione sono caduto in uno stato di torpore esistenziale, e per la prima volta in vita mia ho cominciato a sentire il peso dell‘età.

Questa generazione

Al giro di boa dei trenta, riflettevo, i miei genitori avevano fatto un sacco di cose – figli, lavori, mutui, animali domestici –, i miei nonni avevano fatto la guerra e ricostruito il paese e i miei bisnonni erano morti per la spagnola. Io non solo non avevo fatto nemmeno una di queste cose, ma mi sembravano tutte inconcepibilmente lontane dai miei orizzonti.

Tuttavia, mi ero sempre detto, è oggettivamente assurdo paragonare le generazioni tra di loro. Nonni e bisnonni dovranno fare le cose in fretta, prima che un bombardamento o il vaiolo li strappassero agli affetti dei loro cari, e i nostri genitori non avevano Internet, Ryanair e PornHub: ad un certo punto le opzioni si esaurivano e restavano famiglia e carriera.

Ogni generazione fa storia a sé: noi abbiamo un‘adolescenza ventennale ma sappiamo fare cose che i nostri nonni se le sognavano, come prenotare una vacanza in dieci minuti e memorizzare un numero vertiginoso di combinazioni di tasti per giocare a Pes.

Invecchiare

Purtroppo però di punto in bianco anche i miei i coetanei hanno cominciato a diventare adulti. Ragazzoni imbecilli e ipertatuati che fino a un minuto prima si nutrivano solo di spinelli king size e di merendine per ammazzare la fame chimica, i cui orizzonti si esaurivano tra calcetto e fantacalcio e che tiravano mattina a ciondolare tra i locali per evitare l‘onta di rientrare a casa prima dell‘alba, da un giorno all’altro hanno cominciato a presentarsi con la fede al dito e la prole al seguito e a incarnare i valori della famiglia tradizionale.

Certo, io lo so che sono ancora gli stessi ragazzoni imbecilli, lo so che la loro felicità dipende ancora esclusivamente dai risultati della Juventus, lo so che la loro iscrizione al popolo della famiglia è un fuoco di paglia e che i loro marmocchi si trovano con un numero esponenzialmente crescente di genitori, man mano che quelli naturali si lasceranno e si riaccompagneranno e poi si lasceranno di nuovo e si riaccompagneranno e così via all’infinito, realizzando infine l‘utopia platonica di una comunità in cui ogni bambino è figlio di tutti.

Lo so, eppure questo precipitare di eventi non sono riuscito a lasciarmelo scivolare addosso. Sono invecchiato di colpo. Anche i ragazzini, quelli nati negli anni Novanta, li incontri in giro con il Suv, il borsello e il riporto e ti parlano con cognizione di causa di commercialisti, Euribor e miniclub. È così che sono passato dall’eternità della giovinezza all’horror vacui della senilità perdendomi le tappe intermedie.

E più mi sento invecchiare e più all’orizzonte vedo tagliarsi la mia versione personale dell’orologio biologico: l‘immagine di mio padre che vuole che io erediti il ​​bar di famiglia. Io l‘ho giurato a me stesso e a lui, nel momento in cui ha mollato mia madre (e me, di conseguenza), che il bar Gori non lo avrei preso nemmeno morto; e ormai è sempre più chiaro che lui sta aspettando che il mio cadavere di laureato in lettere gli scorra davanti per potermi intrappolare e costringermi a perpetuare la sua micro-impresa personale.


da La ricreazione è finita, (C) Sellerio editore, 2023. Tutti i diritti riservati

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