A prima vista, la faccenda è molto semplice. «Per “libertà d’espressione” intendo semplicemente ciò che è consentito dalla legge. Sono contro una censura che vada ben oltre la legge. Se le persone volessero meno libertà di parola, avrebbero chiesto al governo di approvare leggi in tal senso. Pertanto, andare oltre la legge è contrario alla volontà del popolo».

Così, con uno zoppicante sillogismo, Elon Musk ha spiegato su Twitter quale sia la sua visione della libertà d’espressione e quale la bussola che intende seguire per gestire la moderazione dei contenuti sulla piattaforma da lui acquistata per 45 miliardi di dollari.

Che cosa ci sarebbe di sbagliato se su Twitter, che negli anni ha introdotto articolate norme sui comportamenti da tenere al suo interno, fosse permesso fare tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge?

Oltre alle molteplici ambiguità del concetto di “legge” espresso da Musk (su cui torneremo più avanti), in realtà abbiamo già la risposta a questa domanda. Ci siamo già passati.

Dieci anni fa, l’allora amministratore delegato Dick Costolo e altri alti dirigenti di Twitter dichiararono che il loro social media rappresentava «l’ala per la libertà d’espressione del partito per la libertà d’espressione».

Una formula un po’ contorta per indicare il loro assolutismo libertario: le persone su Twitter avrebbero potuto pubblicare tutto ciò che volevano. La loro visione di Twitter era di una piattaforma neutra che si limitava a ospitare liberamente ogni tipo di contenuto (con pochissime eccezioni).

Negli anni in cui Twitter – e in misura minore anche Facebook e YouTube – ha cercato di restare fedele a questa posizione ideologica, la piattaforma è stata inondata dalle inevitabili conseguenze di un eccessivo laissez-faire: incitazioni alla violenza etnica, diffusione di immagini naziste, razzismo, truffe a base di criptovalute, teorie del complotto, molestatori, nudità non richieste, propaganda di regime, bullismo, armate di troll impegnate a tempo pieno a inquinare il dibattito.

Non solo: come ha scritto Siva Vaidhyanathan sul Guardian «per anni le donne che si sono espresse liberamente su Twitter l’hanno fatto sapendo che avrebbero ricevuto costanti minacce, che sarebbero state divulgate informazioni sulla loro vita privata e che sarebbero state soggette a molestie».

Aggiungiamoci la diffusione delle più deleterie bufale antiscientifiche e il quadro è completo: tra comportamenti illegali (e che quindi dovrebbero venir vietati anche da Musk), altri perfettamente legali (seppur inaccettabili sotto molti altri punti di vista) e parecchi che vivono in una zona grigia, col passare del tempo Twitter ha capito che la decisione di ridurre al minimo la moderazione dei contenuti e di lasciare che i tweet fluissero il più liberamente possibile stava rendendo la piattaforma non solo invivibile, ma addirittura pericolosa per la tenuta della democrazia.

La cacciata di Trump

Questo processo è culminato con la decisione di Twitter – come anche di Facebook, YouTube e molti altri – di espellere in maniera permanente Donald Trump, che aveva sfruttato il suo social media prediletto per aizzare la folla in quello che è poi diventato l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.

Nel momento in cui hanno deciso di privare del suo megafono digitale nientemeno che l’allora presidente degli Stati Uniti, Twitter e gli altri hanno definitivamente passato il Rubicone.

È una scelta controversa, ma forse inevitabile, che rappresenta il punto d’arrivo di un percorso lungo quasi quindici anni, durante i quali ci si è resi conto che moderare con una certa severità i contenuti, e fare piazza pulita di alcuni personaggi, era l’unica strada percorribile.

Tutto questo percorso (anzi, questo campo minato) Elon Musk non ha mai dovuto attraversarlo. Nonostante i suoi 89 milioni di follower, non si è mai confrontato realmente con le conseguenze di una radicale interpretazione del concetto di libertà d’espressione.

Il nuovo proprietario di Twitter è un dilettante della gestione dei social media: ancora legato a una visione del “free speech” non solo superficiale, ma già sconfitta dalla storia.

Quale sarebbe tra l’altro la “legge” citata da Musk come faro per la moderazione di Twitter? Quella statunitense? Da questo punto di vista, il neo-proprietario di Twitter potrebbe essere stupito dallo scoprire che proprio la legge degli Stati Uniti non solo consente alle piattaforme di moderare i contenuti che fluiscono tramite essi, ma addirittura li incoraggia a farlo.

E che dire invece della legge appena varata dall’Unione Europea, il Digital Services Act, che obbliga Twitter e le altre piattaforme a vagliare con attenzione maggiore la disinformazione e gli abusi (anche se non illegali, viene specificato nella legge) che corrono sui social network? E come relazionarsi alle leggi del Vietnam o dell’India, che impongono alle società di social media di rimuovere i post che vengono considerati eccessivamente critici nei confronti del governo?

A proposito, è proprio nelle zone del mondo più lontane dall’occidente – o nei paesi dove la democrazia è più fragile o assente – che la superficiale visione di libertà d’espressione di Musk, elaborata da una posizione di assoluto privilegio, rischia di avere le conseguenze peggiori.

«Questa visione non può funzionare in una nazione come l’India», ha spiegato a Codastory (testata specializzata in disinformazione) Nikhil Pahwa, esperto di politiche digitali. «Il tipo di espressione che Twitter permette ha delle conseguenze concrete nella nostra società. I nostri partiti politici sono molto bravi a comprendere i meccanismi degli algoritmi dei social, a creare tendenze, a rendere dei contenuti facilmente condivisibili. Ciò in cui eccellono di più è (sfruttare tutto ciò) per alimentare l’odio».

Violenza social

Le devastanti conseguenze di un utilizzo senza freni di Twitter, Facebook e gli altri, da quelle parti, si sono già viste. Il partito di governo in India, il BJP, e altri movimenti integralisti induisti hanno in passato più volte utilizzato i social network per incitare alla violenza contro le minoranze religiose.

Sempre in India, delle bufale diffuse sui social media, riguardanti presunti rapimenti di bambini da parte di non meglio definite gang, avevano innescato nel 2018 un’ondata di violenza capace di causare la morte di oltre 20 persone. In Sri Lanka, invece, la disinformazione circolata in quel caso su WhatsApp era stata considerata la miccia che aveva contribuito ad accendere gli scontri tra buddisti e musulmani.

«I germi di questa violenza sono nostri, ma i social network sono il vento che li diffonde», aveva chiosato in quell’occasione il consigliere dell'allora presidente Maithripala Sirisena.

L'incitamento alla violenza tramite piattaforme digitali ha avuto negli anni le conseguenze peggiori probabilmente in Myanmar, dove i post incendiari circolati sui social network e le piattaforme di messaggistica avevano contribuito a scatenare la violenza nei confronti della minoranza musulmana dei rohingya.

«Credo che oggi ci troviamo in una situazione in cui abbiamo bisogno di più moderazione dei contenuti violenti e non meno. Non penso che Musk capisca o si interessi se le persone in India diventano polarizzate o finiscano addirittura uccise», ha spiegato sempre Nikhil Pahwa.

Contenuti che secondo Elon Musk dovrebbero essere permessi su Twitter, in quanto non espressamente vietati dalla legge, possono lo stesso avere conseguenze odiose o addirittura nefaste.

Anche limitandosi a casi meno eclatanti di quelli appena citati, difendere la libertà d’espressione dei troll significa comunque accettare che la loro azione impedisca la libertà d’espressione delle persone prese di mira.

Accettare che pericolose teorie del complotto vengano liberamente diffuse può avere gravi conseguenze dal punto di vista sanitario e politico. Lasciare che la propaganda di stato fluisca senza ostacoli può fare il gioco dei dittatori.

Per quanto l’enorme potere di chi decide cosa si possa o meno fare sui social network abbia molti aspetti controversi (o addirittura inquietanti) e che andrebbero affrontati seriamente, trattare Twitter alla stregua di una “pubblica piazza de facto” (come l’ha definita proprio Elon Musk) sarebbe comunque un errore.

Prima di tutto è globale, non locale. E soprattutto non è affatto una realtà pubblica, ma un luogo privato in cui si deve sottostare a determinate condizioni. Se Twitter fosse stato davvero un bene pubblico, d’altra parte, Musk non avrebbe potuto comprarlo.

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