A proposito delle notizie sulla Shoah pervenute in Vaticano nel 1942, ferma restando l’impossibilità di proporre dati statistici accurati, va considerato che si stima che gli ebrei uccisi in quell’anno siano stati tra il 50 e il 55 per cento del totale. Riguardo a questo e altri numeri, non va dimenticato che stiamo parlando di singole persone, ciascuna caratterizzata da un nome, un’età, una famiglia, affetti, sogni, studi o attività.

Le notizie erano riferite da sacerdoti rientrati da viaggi, esponenti religiosi locali, nunzi apostolici, rappresentanti di governi, cittadini laici, singoli ebrei, enti ebraici. Dalla lettura di tutte le carte a disposizione, emerge la lenta ma continua crescita dell’affiancamento dei vocaboli “ebreo” e “morte”, a partire da metà 1941. Mi sembra legittimo affermare che la Segreteria di Stato della Santa Sede fu uno dei maggiori punti di arrivo delle notizie sull’ebreicidio in atto nel continente.

In alcuni casi, i documenti erano rimasti chiusi nei depositi archivistici vaticani sino all’apertura del 2020; in altri, erano già stati pubblicati nella nota serie di volumi documentari edita dalla Santa Sede a partire dal 1965. In una relazione per Pio XII datata 6 gennaio 1942, il cappellano militare Pirro Scavizzi scrisse che gli ebrei polacchi (ma forse intendeva anche quelli ucraini) erano stati uccisi con vari sistemi, «di cui il più frequente ed il più conosciuto è quello del mitragliamento in massa [...] in gruppi di centinaia e centinaia e talvolta di migliaia», e di avere saputo di gruppi di ebrei caricati su vagoni ferroviari «poi abbandonati finché i poveri deportati erano quasi tutti morti». Aggiunse che «il numero delle uccisioni di ebrei si fa ascendere fino ad ora a circa un milione».

I documenti

Il 18 marzo 1942, i rappresentanti in Svizzera dell’Agence juive pour la Palestine e del Congrès juif mondial consegnarono un Aide-Mémorie al nunzio apostolico in Svizzera Filippo Bernardini, che il giorno seguente lo inoltrò al segretario di Stato Luigi Maglione. Il documento riepilogava la persecuzione antiebraica in atto nei territori sotto dominio tedesco e in alcuni Stati europei antisemiti. Tra l’altro affermava che le legislazioni e le persecuzioni antiebraiche attuate in Croazia, Slovacchia e Romania forse miravano «proprio allo sterminio fisico degli ebrei». Per la Polonia sotto occupazione nazista, denunciava «il lento e costante sterminio dovuto al sistema dei ghetti» e l’uccisione diretta di «migliaia di ebrei in Polonia e nelle parti occupate della Russia».

In una relazione per Pio XII, inviata il 12 maggio 1942, il cappellano militare Scavizzi scrisse: «La strage degli ebrei in Ucraina è ormai al completo. In Polonia e in Germania la si vuole portare ugualmente al completo, col sistema delle uccisioni in massa». Nel testo vi è anche menzione di Auschwitz, quale luogo di incarceramento di alcuni salesiani.

Il 12 luglio 1942 l’ambasciatore della Polonia presso la Santa Sede Kazimierz Papée inoltrò alla Segreteria di Stato un rapporto sulla situazione polacca. Riguardo agli ebrei, esso affermava che la valutazione di 700.000 uccisi proveniva da circoli ebraici e che i dati conosciuti dal governo polacco «sembrano confermare» quel totale. Il testo precisava che alcuni erano stati «uccisi in camere a gas», senza aggiungere dettagli. Nell’ambito della documentazione da me consultata, questo è il primo testo scritto, destinato al Vaticano, con la menzione delle camere a gas.

Il 12 settembre 1942 gli ambasciatori presso la Santa Sede di Belgio e Polonia, anche a nome dei rappresentanti di Francia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Cecoslovacchia e Jugoslavia, presentarono alla Segreteria di Stato una richiesta collettiva di pronunciamento contro le politiche tedesche di occupazione, che «potrebbe arrivare fino allo sterminio di certe popolazioni» e consegnarono uno stampato, datato luglio 1942.

Nel capitolo sulla Polonia era scritto che decine di migliaia di ebrei «furono uccisi per asfissia in camere a gas» e che nel settembre 1941 più di 800 polacchi e prigionieri di guerra sovietici erano stati uccisi a Oświęcim «per mezzo di camere a gas». Il sostituto della Segreteria di Stato Domenico Tardini annotò in un suo appunto manoscritto, datato 15 settembre 1942, di essere stato lui a ricevere i due ambasciatori, e che essi gli avevano voluto leggere gran parte dello stampato, «con estenuante lentezza».

Il 18 settembre 1942 il sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, dopo un incontro con il dirigente dell’IRI Giovanni Malvezzi, rientrato da un viaggio di lavoro a Varsavia, appuntò: «I massacri sistematici degli Ebrei […] hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande e spaventose». A mio parere quelle parole si riferivano anche alle camere a gas.

Il 23 novembre 1942 il rabbino capo della Palestina Isaac Herzog scrisse al segretario di Stato Maglione che le notizie che gli pervenivano dalla Polonia erano «le più orribili che si possano immaginare. Lì si compiono soppressioni sistematiche di migliaia di persone al giorno» e che sperava che «Sua Santità il Papa farà tutto il possibile per salvare i nostri sfortunati fratelli in Polonia».

Infine, il 14 dicembre 1942 un gesuita tedesco scrisse una lettera al segretario di Pio XII, in cui confermava un precedente rapporto (al momento non rintracciato) sul fatto che a Rawa Russka vi era un altoforno (Hochofen) delle SS in cui venivano uccise «fino a 6000 persone al giorno». Il gesuita confermava anche le informazioni su Auschwitz contenute in quel rapporto. Infine collegava tutto ciò alle parole di Hitler del 30 settembre 1942 sullo sterminio di interi popoli.

Considerando che Rawa Russka era scritto tra virgolette, a differenza delle altre località menzionate, e considerando che lì non vi era un centro di sterminio di massa, pare molto probabile che il mittente si riferisse all’intera area di Rawa Russka, quindi anche al campo di Belzec, che distava una ventina di chilometri. In quest’ultimo, non venivano adoperati forni crematori come ad Auschwitz, ma il numero delle uccisioni giornaliere era effettivamente «spaventoso».

Il primo intervento del papa

A fronte delle tante notizie sulle uccisioni di ebrei giunte nel corso del 1942, il primo accenno alle vittime fatto in modo pubblico dalla Santa Sede in quell’anno fu quello contenuto nel discorso pronunciato da Pio XII alla radio il 24 dicembre 1942. Si trattò di una frase di pochi vocaboli, collocata alla fine di un testo di 35.000 battute, centrato su altri temi.

La frase era situata al quarto punto di un elenco delle varie categorie di vittime della guerra, e concerneva le «centinaia di migliaia di persone» che erano uccise o duramente perseguitate «senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe».

La categoria quindi racchiudeva tutte le vittime prive di qualsiasi colpa, compresi – ma questo era chiaro solo agli ascoltatori avveduti – i polacchi in genere e gli ebrei. La formulazione adottata non costituì un atto di solidarietà esplicita, non pose pubblicamente i capi nazisti di fronte alle proprie responsabilità, non invitò gli Alleati a difendere gli ebrei, non ordinò ai cattolici di proteggerli dovunque e comunque. Queste parole sembrano essere state l’unico risultato pubblico ottenuto dalle notizie e dagli appelli accumulatisi nel corso di quell’anno.

Le notizie pervenute alla Santa Sede nel 1942 furono centinaia. Questi pochi esempi menzionano l’individuazione delle vittime tramite criteri razzisti, il legame tra deportazione e morte, la pratica delle uccisioni di massa, il ricorrere del termine sterminio, la contabilizzazione delle vittime in milioni, l’esistenza di locali chiusi in cui le persone morivano asfissiate dal gas, l’utilizzo di definizioni quali «incredibile» o «il più orribile che si possa immaginare». Nel loro insieme, esse descrivevano bene ciò che oggi denominiamo Shoah.

(Testo tratto dall'intervento tenuto all'International Conference di Roma l'11 ottobre)

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