In molti ricorderanno quel periodo fra gli anni Novanta e la prima decade del nuovo millennio, quando il liberalismo, specialmente nella versione neoliberale, era divenuto tema centrale nel dibattito pubblico e in quello accademico persino in Italia. Autori in passato marginalizzati come Friedrich Hayek, Karl Popper, Bruno Leoni, Milton Friedman divennero parte del dibattito pubblico sulle riforme delle quali il paese aveva bisogno. I loro lavori furono integrati come parte della base intellettuale per il progetto di trasformare l’Italia in un “Paese normale” o, più realisticamente, per importare una quantità di neoliberalismo nella politica economica domestica.

Era questo, si diceva, uno dei frutti della nuova era del disgelo. Finita la Guerra fredda, il liberalismo, in particolare nella sua versione neoliberale, era rimasto la unica filosofia politica disponibile e si trattava ora di tradurla negli ordinamenti costituzionali che ne erano rimasti almeno parzialmente immuni. Ma le condizioni che avevano permesso al neoliberalismo di imporsi in quel modo andavano ricercate anzitutto al di fuori del continente e in particolar modo nell’oramai consolidato dominio della sfera culturale anglosassone.

In un libro pubblicato di recente e dal titolo eloquente (Liberalism against Itself), Samuel Moyn, professore di diritto e storia nella influente Law School dell’Università di Yale, ricostruisce l’affermazione negli Stati Uniti di un tipo di liberalismo “da Guerra fredda”, propedeutico ma differente dal neoliberalismo, e lo fa con uno stile inquisitorio. Il suo interesse principale è quello di capire in quale modo, nella storia delle idee, sia potuto accadere che la relazione tipicamente moderna del liberalismo con la ragione e la libertà sia stata denunciata come un pretesto per la repressione e la violenza, o addirittura come un viatico verso l’autoritarismo.

Gli imputati

Gli accusati principali sono gli intellettuali liberali della Guerra fredda. Nel procedere nella sua inchiesta, Moyn non intende offrire un quadro esaustivo della costellazione di pensiero liberale durante la Guerra fredda, ma concentrarsi su una serie di figure rappresentative nel contesto statunitense. Il volume traccia la traiettoria intellettuale e il contributo alla formazione di una teoria liberale primariamente ossessionata dal pericolo del totalitarismo nel pensiero di sei autori, di origini ebraiche e, in alcuni casi, emigrati europei. Alcuni di questi autori sono ben conosciuti anche in Italia (Judith Shklar, Isaiah Berlin, Hannah Arendt, Karl Popper) dove sono diventati parte del canone “anni Novanta”; altri sono molto meno conosciuti al di fuori degli Stati Uniti (Gertrude Himmelfarb e Lionel Trilling).

L’obbiettivo che ha portato Moyn a occuparsi di questa costellazione di autori è duplice: da un lato, egli ritiene necessario capire quali siano le opere e le circostanze che hanno trasformato la teoria liberale, per dirla con Shklar, in un «liberalismo della paura», tutto concentrato sul pericolo esterno del nemico totalitario e degli eccessi di crudeltà che possono essere commessi dai governi; dall’altro lato, Moyn ritiene che un certo metodo di argomentazione difensiva, per il quale il mondo libero deve preservare un credo filosofico nella lotta contro il male del totalitarismo, sia ancora operativo ed efficace in importanti settori accademici e professionali, come si può evincere dalla generazione che ha raccolto l’eredità degli intellettuali della Guerra fredda (si pensi, ad esempio, a Michael Ignatieff, Tony Judt, Timothy Garton Ash).

Tracce consistenti di tale metodo riemergono poi nella lotta al terrorismo dopo il 2001, e più di recente nella preoccupazione, ora con Donald Trump anche domestica, di dover contenere la minaccia cosiddetta populista. Infine, lo stile del liberalismo da Guerra fredda ritorna nei commenti degli autori liberali successivi all’invasione dell’Ucraina.

Il liberalismo e le masse

Moyn non ha molta pazienza per il pensiero del liberalismo da Guerra fredda. Le ire dell’autore sono comprensibili quando si tenga a mente che egli non è un critico tout court della filosofia politica liberale. Pur con tutte le sue ambiguità, secondo Moyn vi è stato un tempo (soprattutto negli Stati Uniti) nel quale il liberalismo ha espresso anche un potenziale di emancipazione per le masse, ad esempio durante il New Deal. Tale potenziale è venuto meno nelle ultime decadi del secolo scorso, e il suo costante indebolimento è stato favorito dall’aver dimenticato l’importanza delle condizioni storico-economiche che permettono agli individui di realizzarsi per concentrarsi, invece, sulla difesa di una concezione formale della libertà.

Il potenziale di emancipazione del liberalismo viene estirpato dagli intellettuali della Guerra fredda attraverso tre critiche radicali che sono presenti, in misura e toni differenti, in tutti gli autori della costellazione presa in esame dall’autore. Si tratta del rigetto dell’Illuminismo, del Romanticismo (in particolare tedesco) e dello storicismo, al quale segue la rinuncia a tematizzare il benessere, la creatività e l’eguaglianza.

Esempi paradigmatici di questa forma mentis sono l’attacco veemente di Hannah Arendt contro la Rivoluzione francese (e il suo silenzio su quella di Haiti), l’accusa di totalitarismo lanciata da Popper alle filosofie di Hegel e Marx, e ovviamente la difesa della libertà negativa di Berlin.

Non sorprende quindi che pur trattandosi di una dottrina sviluppatasi durante l’ascesa dello stato sociale e della più ampia ondata di decolonizzazione durante gli anni Sessanta, il liberalismo degli intellettuali della Guerra fredda non ha mai ragionato su una concezione espansiva della democrazia né sulla difesa del welfare. Al contrario, proponendo un’idea minimalista di libertà, esso ha provveduto a spianare la strada al neoliberalismo e al neoconservativismo.

Difficile dare torto a Moyn su questo punto: il liberalismo da Guerra fredda è stato una catastrofe, anzitutto per il liberalismo stesso.

Una reinvenzione

Moyn è autore originale che insegna in una facoltà molto influente, anche al di fuori del mondo accademico. La condanna del liberalismo da Guerra fredda va collocata nell’ambito di un progetto teorico più ampio che mira a recuperare gli spazi per l’agire collettivo e la capacità di intervento delle istituzioni nel contesto statunitense. Le sue prese di posizione a favore di un costituzionalismo politico che tolga alla Corte suprema degli Stati Uniti l’ultima parola sul contenuto della Costituzione e la sua partecipazione al nuovo movimento di “Diritto ed Economia Politica” con il quale diversi autori statunitensi provano a contrastare il dominio di Law & Economics sono parte integrante di questo progetto.

Se il liberalismo che egli ritiene si possa recuperare sia realmente la miglior base filosofico-politica per questo tipo di programma è lecito nutrire molti dubbi. Nel finale del libro, Moyn fa riferimento a una reinvenzione del liberalismo con aspetti che rimandano alla versione perfezionista di John Stuart Mill e alla capacità del liberalismo statunitense della prima parte del Ventesimo secolo di espandere gli spazi di libertà e di eguaglianza. In realtà, molte di queste conquiste si devono più ai movimenti democratici, socialisti e femministi che a quelli liberali. Ma probabilmente Moyn è preoccupato dalla cornice, imposta da destra, entro la quale il dibattito sul liberalismo si sta sviluppando negli ultimi anni negli Stati Uniti. Si pensi all’attenzione ricevuta dagli attacchi frontali al liberalismo da parte di Patrick Deneen o alla rapida ascesa di un “costituzionalismo del bene comune” sostenuto dal professore di diritto ad Harvard, Adrian Vermeule, ancora in chiave apertamente antiliberale.

Al di fuori del contesto statunitense, va notato che, proprio sulla scorta del lavoro di Moyn, un bilancio degli effetti deleteri del liberalismo da Guerra fredda sulla cultura politica e filosofica italiana sarebbe operazione altrettanto auspicabile.

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