Non passa praticamente settimana in cui non scattino polemiche su esternazioni di politici o giornalisti che attaccano antifascismo e Resistenza derubricandoli nella migliore delle ipotesi a fastidiosi residui del passato oppure che, sovente in parallelo, proseguono imperterriti la tradizione del racconto di un fascismo immaginario, sorvolando sulla sua ferocia e sulla sua natura di crimine al potere.

È un rumore di fondo che ha accompagnato integralmente la vita dei quarantenni di oggi: la critica mossa negli anni Ottanta alla cosiddetta “vulgata resistenziale” – come ha scritto lo storico Filippo Focardi –  si è trasformata all’inizio del decennio seguente «in una pressione crescente sulle istituzioni» perché «promuovessero una nuova memoria pubblica svincolata dalla contrapposizione fascismo/antifascismo».

Si tratta di una linea di tendenza generale che ha visto un'erosione della narrazione antifascista; la peculiarità italiana pare essere il ruolo di primissimo piano svolto dall'opposta vulgata, quella neofascista. Opera di una destra incarnata nella svolta Msi-An che a metà degli anni Novanta iniziò a capitalizzarne i frutti che sarebbero stati infine colti dalla Lega nazionalista e dal partito loro erede per filiazione: Fratelli d'Italia.

Il ruolo delle foibe

Un quarto di secolo fa Gian Enrico Rusconi ci ammoniva: l'offensiva storico-politica di An proponeva con forza inedita «innanzitutto il riconoscimento della dignità e dell'onore personale dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana». Ma nel discorso pubblico si chiedeva qualcosa di politicamente più rilevante, insisteva Rusconi, e cioè che si ammettesse che le motivazioni dei fascisti «avevano ragioni storicamente valide che oggi si possono finalmente dire ad alta voce: erano le ragioni dell'anticomunismo»; tesi non originale che puntava a «spostare l'asse politico più a destra». Pare ci siano riusciti.

Questa offensiva, inoltre, dal 2004 ha un'ulteriore freccia nel suo arco: l'uso politico del Giorno del Ricordo, la ricorrenza in cui si celebrano le persone uccise nei massacri del confine orientale, con il quale si è santificata la figura della “vittima delle foibe”, anche se fascista. È un'operazione che rischia di far diventare il 10 febbraio, come è stato sottolineato dallo storico Eric Gobetti – autore di E allora le foibe? – e da tanti altri studiosi, la “Giornata della memoria fascista”.

Perché tra le migliaia di italiani uccisi nel corso della “complessa vicenda del confine orientale” (come recita la legge istitutiva) c'erano anche colpevoli: tra gli esempi più eclatanti c'è quello del tenente colonnello Vincenzo Serrentino, che nel 2007 ha ottenuto la medaglia d’oro al merito civile in quanto “infoibato”: fascista senza scrupoli, criminale di guerra e membro del Tribunale straordinario della Dalmazia, aveva condannato a morte anche minorenni.

Eppure, come abbiamo più volte denunciato pubblicamente, anche con una lettera aperta – firmata da 137 studiosi italiani, sloveni e croati – alle alte cariche istituzionali in occasione dell'80esimo anniversario dell'invasione nazifascista della Jugoslavia (che ha fatto un milione di morti), un paese sano deve innanzitutto assumersi le responsabilità storiche dei crimini commessi, per poi eventualmente approfondire le violenze – oltretutto successive, e in parte consequenziali – subìte.

I crimini dimenticati

Il racconto pubblico che la destra ha consolidato come senso comune si basa invece sulla deliberata rimozione del fatto che il fascismo abbia seminato morte e distruzione nel mondo per due decenni. Dalla conquista della Libia e dell’Africa Orientale, passando per i bombardamenti sulla Spagna repubblicana, per giungere alla guerra contro i civili in Grecia, Russia e appunto in Jugoslavia, l’esercito italiano in epoca fascista si è macchiato di indicibili atrocità, sterminando le popolazioni locali, guidato da una feroce sete imperiale ancora in larga misura taciuta nel racconto mainstream del '900 italiano, o – ed è pure peggio – narrata come spinta verso una legittima grandeur sullo scacchiere internazionale.

I soli massacri di Addis Abeba e Debre Libanos in Etiopia, tra febbraio e maggio del 1937, produssero oltre 20mila morti – quattro volte quelli “delle foibe” – in una sanguinaria caccia all'uomo che coinvolse gran parte della società coloniale.

Il dibattito pubblico italiano, ormai, orbita costantemente intorno alla richiesta di riconoscimento delle “proprie” vittime o alla pretesa di una “memoria condivisa” che schiacci in un unico contenitore patriottico e nazionalista le ragioni e i torti della storia, le vittime innocenti, i carnefici e chi si era opposto all'incubo del nuovo ordine nero.

La memoria pubblica del fascismo non ha mai goduto di una salute migliore, anche e innanzitutto all'interno di ampie fasce del senso comune moderato. L'anno successivo all'Istituzione del Giorno del Ricordo, Sergio Luzzatto già dava voce al sospetto che fosse quella resistenziale a «somigli[are] fin troppo a una storia dei vinti», e un anno dopo Giovanni De Luna firmava un articolo dall'eloquente titolo "Resistenza: hanno vinto i revisionisti”. Complice la stagione di governi di destra che avevano permesso al revisionismo di dilagare, si iniziò a parlare, con Angelo D'Orsi, di “rovescismo”.

Se è vero che la narrativa antifascista nei decenni si è svuotata troppo spesso dei suoi contenuti ammantandosi di vuota retorica, ormai nello spazio pubblico paiono più presenti le violenze sporadiche sui fascisti che quella sistemica del regime e di Salò. Nella logica del «non esistono morti di serie B» i gerarchi della Repubblica sociale italiana dovrebbero essere degni dello stesso rispetto degli antifascisti che lottavano per un'Italia libera e democratica, e persino delle loro vittime.

L’ultimo assalto

Ora il partito che – senza una chiara elaborazione del suo passato e della sua incompatibilità con la democrazia repubblicana, come ha scritto Piero Ignazi su queste pagine –, raccoglie l'eredità di quella esperienza, Fratelli d'Italia, propone che l'articolo del codice penale che punisce chi nega, minimizza gravemente o fa apologia della Shoah renda perseguibile anche chi fa lo stesso con i “massacri delle foibe”. Lo scopo di fare di quella vicenda (decontestualizzata, ingigantita e mitizzata) il contraltare nazionalista della Shoah è sempre stato piuttosto esplicito, anche nell'ottica di insabbiare ulteriormente i crimini dell'Asse, ribaltando la mappa dei valori dell'Europa postbellica. È l'obiettivo di chi, nella “partita” della memoria pubblica, vuole che un fanatico gerarca fascista debba essere ricordato (e celebrato), esclusivamente in quanto “vittima italiana”, allo stesso modo di un neonato gassato ad Auschwitz.

Come storici e cittadini non possiamo che augurarci che questo infondato accostamento raggelante venga respinto dai nostri rappresentanti, ma nel frattempo auspichiamo un'inversione di rotta nell'opinione pubblica: le finte indignazioni contro il “politically correct” su quotidiani che incitano all'odio identitario da anni sono intollerabili ferite alla democrazia; ed è altrettanto preoccupante la gara a chi arriva prima a “prendere le distanze” da chiunque avanzi critiche verso un/una neofascista più o meno malamente camuffato/a.

Dobbiamo uscire dal vortice del nuovo squadrismo (ora mediatico) di chi si sente erede di quella storia e alfiere di quella memoria, e non esita a scatenare tempeste di fango su chiunque intralci la sua strada, per poi invocare la libertà d'espressione. Perché ogni volta ci caschiamo. Chiunque abbia a cuore la democrazia, la cultura e la libera espressione dovrebbe fare propria questa battaglia culturale. Prima che articoli come questo siano perseguibili per legge.

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