È difficile dire se l’ultimo romanzo di Jonathan Bazzi (Corpi minori, Mondadori) sia un romanzo generazionale o di formazione: è stato scritto dall’autore trentasettenne, e la data del 2022 è presente nel testo, ma le vicende si svolgono tra il 2012 e il 2014, quando il suo alter ego autofittivo ha tra i ventisette e i ventinove anni, e a ventinove ha il coraggio di chiedersi “è dunque qui che finisce l’infanzia?”. Siamo davvero di fronte a un fenomeno sociologico, ai nostri trentenni con maturazione tardiva: quelli dei lavori precari, del non so come esprimere il mio vero io, della bizzarria scambiata per identità, quelli senza narrazioni forti e senza maestri, quelli tecnologicamente avanzatissimi e con la balbuzie sentimentale, tutti ugualmente diversi e disperatamente se stessi, quelli con la paura della scelta e delle gerarchie.

Ma il protagonista del romanzo è troppo intelligente per non guardarsi da fuori e non ironizzare sul suo essere quel che è («Ho ventotto anni e non sono niente»; «noi siamo la generazione che sente attraverso il sentire degli altri»), come sul proprio bisogno frustrato di modelli (Parametri, fornitemi dei parametri»).

Feroce con le illusioni

Jonathan Bazzi (Foto Agf)

Mai un lavoro serio, ambizioni universitarie senza disciplina, mai presa la patente di guida, «cresciuto tra gli analfabeti, non sarò mai un intellettuale». Da Rozzano, e dalla sua «necropoli dei morti in vita», punta al centro della città, moderno Rastignac: ogni capitolo si intitola a una via o a una piazza di Milano, e le descrizioni d’ambiente sono la cosa migliore del libro.

Feroce con le illusioni degli altri e con se stesso, come il Tondelli arbasiniano degli esordi: improvvisato insegnante di yoga distrugge i legamenti delle ricche signore che si affidano a lui, deride senza pietà le «quarantenni di belle speranze formatesi su Marie Claire e Amica» che sperano di fare carriera nel fashion system, poi va in piscina e si vede «circondato dalle anatomie dei meno abbienti».

Una Milano (con tracce di Bianciardi) che offre vicino alla stazione Centrale un «raduno internazionale di fisting» e adorabili rumeni, una città di psicanalisti cialtroni e lezioni di «antropologia della moda», redazioni giornalistiche che spediscono laureati in Scienze umane a recensire ristoranti di sushi, pagandoli una miseria.

Ma l’alter ego di Bazzi è qualcosa di più e di meno di un osservatore disincantato, è lui stesso incantato dal mito dell’amore romantico. Più che il lavoro gli interessa farsi finalmente “una storia” col principe azzurro, superare i deludenti incontri online («Dal vivo non ho mai conosciuto nessuno»).

La sua amica del cuore Melissa gli dice «sei peggio delle femmine»; a Rozzano qualcuno lo chiama «il figlio ricchione del poliziotto», in una lingua mescidata di alloglossie meridionali. Istintivamente cerca più maestre che maestri: filosofe, scrittrici, psicanaliste e femministe storiche, divinità femminili, il romanzo si apre nel nome di Vanessa Beecroft e si chiude con quello di Miley Cyrus.

Ironia realista

«Non mi sento né maschio né femmina», afferma con ideologica fermezza, ma non gli sfugge che questo forse ha a che fare col suo stato di perenne preadolescenza («Restare territorio aperto… non crescere mai?»). L’ironia realista non lo abbandona nemmeno negli stati d’estasi erotica («La maglietta tenuta su con i denti perché non si sporchi») o nei baratri di gelosia («al bisogno il binarismo esiste, a tutela»).

Vissuto tra madre e nonna, abbandonato da un padre violento («Mano di padre su collo materno»), è però affascinato da quello sciupafemmine impenitente, e qualcosa ha preso dal suo sognare in grande. Non vuol sapere nulla dell’inautenticità del desiderio, per lui vale l’immortale sentenza di Cime tempestose («Io sono Marius»); il grande amore tanto cercato appare ma lui non è più sicuro di amarlo, confonde ossessione e nevrastenia, l’altalena lo lascio/non lo lascio va in isterico crescendo fin che la coppia non arriva a una sua provvisoria stabilità; dopo otto anni li ritroviamo ancora insieme, e la normalità viene presentata come un happy end.

Lo stile rivela il carattere

Quel che conta è la scrittura: veloce, sincopata, ricca di ellissi, di frasi nominali e verbi all’infinito, come se la sintassi stesse dalla parte delle scelte autoritarie. Molte parentesi e scarti di punto di vista, poche subordinate; termini tecnici e/o medici usati come difesa dalla commozione; a tratti metafore improvvise e definizioni illuminanti (la casa materna come «un’enorme lampada insetticida», la sorella che esprime il disagio con sintomi somatici è «la mia piccola Skipper da accessoriare», le belle rughe senili di Benedetta Barzini come «statement e accessorio politico»).

Bazzi sa scrivere, su questo non ci piove, lo stile rivela il carattere ed è più forte dell’ideologia; ma che si tratti di un narratore vero lo si vede soprattutto a livello di costruzione. È la struttura che esige la contraddizione: a un certo momento il protagonista smette di essere un mantenuto e diventa colui che mantiene («A noi ora ci penso io»), tutta la esibita fluidità di genere è costretta a constatare il passaggio simbolico e che «i padri risolvono le cose».

Prendendo (forse inconsciamente) a modello l’archetipo proustiano, il libro che stiamo finendo di leggere è il libro che sancisce l’avvenuta maturazione dell’autore, cioè del personaggio che dice io.
 

Smania di riconoscimento

Ma qui c’è forse la cosa ancora non risolta nell’idea che Bazzi si fa della letteratura. Come il protagonista va a cercare su Google “come sapere se si è innamorati”, o prova a curarsi contattando i propri terapeuti su internet («Benvenuti nel network della terapia accessibile»), così comincia a scrivere riempiendo ogni giorno il rettangolo bianco dello “stato” di Facebook.

È incoraggiato dai commenti, proviene da un apprendistato di giornalista dove quel che contava era essere letto nei primi dieci minuti, è preso da una smania di riconoscimento («Io scrivo, sappiatelo tutti»); ne ricava un’idea molto ingenua di poetica, come se l’autofiction consistesse in una sincerità accattivante e smart: “Prendi le persone e togli la noia”.

L’idea è quella di uno spontaneismo libero e schiacciato sul presente («Attorcigliarci attorno a quello che accade ora, e poi ora, poi ora»), in cui l’unico riferimento è l’eterna fedeltà alle emozioni come si manifestano in quel momento: «Non esiste alcun centro al di fuori di quello che ci siamo inventati».

La stabilità, anche sentimentale, non è che «La ripetizione quotidiana di un’instabilità»; si delinea un’equivalenza tra fluidità di genere e assenza di geometrie in letteratura. Nessuna coazione biologica, nessuna tradizione che ci obblighi a mediare.

Ma il libro ne sa più di lui. È il libro che alla fine, proditoriamente, ci mette di fronte a quegli otto anni non descritti, a quel salto dal 2014 al 2022 che si presenta al lettore come una béance psicologica, un vuoto che accusa.

Se Proust dev’essere, allora si sappia che per Proust il romanzo è come una cattedrale, con spinte e controspinte dinamiche esattamente misurate, con leggi generali estratte dalle esperienze particolari, altro che essere legislatori di noi stessi.

Il tempo è quel che serve perché le cose mutino; quel che trasforma un’infatuazione in affetto è la pazienza, non solo la pazienza di sopportare ma quella che aiuta a capire. Bazzi se la cava, nel finale, con una corsa cinematografica (tra Il laureato e un film di Muccino) verso il concerto di Miley Cyrus e con una domanda dal lungo futuro («Secondo te questa era l’ultima?»).

Nulla ci racconta degli otto anni che seguiranno, dei compromessi necessari, dell’estraneità dell’altro e della mediocrità condivisa. Ha tolto la noia, ma di molta noia sono fatte le storie. Da bravo pre boomer, aspetto Bazzi alla prossima prova, con la nuova forza che gli deriverà da quest’ottima riuscita: più consapevole dei doveri dell’arte e meno fiducioso nelle teorie in voga, o nella semplice prontezza dei nervi.

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