Stephen King è un creatore di mondi. E questa non è una novità.

Di tanto in tanto questi mondi si intersecano, si arricchiscono di nuovi personaggi che portano con sé altri mondi, tutti loro, e che ampliano la visuale su quello che ormai da decenni è definito Kingverso: un universo di infinite possibilità e continua contaminazione dentro e fuori dalla produzione sterminata e in costante sviluppo di King.

Per i fan, specialmente quelli della prima ora, che vedono di cattivo occhio la sorta di riscoperta/revival del loro paladino ormai affermata come tendenza, è tutto un discorso già sentito, parte di un gioco che conducono con l’autore fin dai primi successi commerciali. Nulla accade solo in un libro, in un romanzo o in una novella, e nessun personaggio vive solo lo spazio della sua vicenda, ma tutti possono capitare da qualche altra parte, a distanza di anni dalla loro prima comparsa e ogni evento è reale ed esistente nella complessa cronologia kinghiana.

Una traccia di tutto

Quando Jake Epping, protagonista del romanzo 22/11/63, pubblicato nel 2011, si trova a passare nell’opprimente e malvagia Derry della fine degli anni Cinquanta, incontra Richie Tozier e Bev Marsh, due dei Losers di It, romanzo mondo del 1986, che gli raccontano del male che attanaglia la città.

Quando Louis Creed, il medico di città che in Pet Semetary, pubblicato nel 1983, si trasferisce in campagna per vivere un’esistenza serena e quieta prima di imbattersi in un vecchio cimitero nativo, chiede spiegazioni sulle insistenti misure antirabbiche messe in atto nella contea, si sente rispondere dal suo vicino di casa Jud Crandall che tempo prima un enorme sanbernardo aveva sterminato una famiglia, chiaro riferimento ai fatti di Cujo, del 1981.

Il cattivo più cattivo di tutti, Asso Merrill, che fa la sua prima comparsa nella novella Il corpo, contenuta in Stagioni diverse, raccolta del 1982, viene poi mostrato errabondo e alcolizzato in Cose preziose, del 1991; Pennywise, il pagliaccio ballerino nonché forma preferita da It, compare un po’ ovunque nei romanzi a venire, da Le creature del buio (1987) a Insomnia (1994), dando adito a varie teorie secondo le quali la vicenda del male assoluto di Derry non sia ancora finita e pronta per essere archiviata.

Allo stesso modo, la prigione di Shawshank, presentata per la prima volta in Rita Heyworth e la redenzione di Shawshank, incombe come un greve presagio sulle teste di chiunque abbia la cattiva pensata di commettere un reato in praticamente tutte le opere successive; infine, si possono trovare riferimenti alla torre nera, che dà il nome alla fortunata serie fantasy cominciata con L’ultimo cavaliere nel 1982, in moltissimi altri libri e, anzi, c’è chi è arrivato a supporre che tutto l’universo di King si trovi proprio all’interno della torre stessa.

L’elenco potrebbe proseguire ancora per diverse pagine.

Non esiste un altro autore che, come King, abbia saputo tenere traccia, con dedizione quasi ossessiva, di tutto ciò che ha scritto, inventato, delineato. Se è vero, come gli è capitato di dichiarare in un’intervista che «ogni mio romanzo finisce con l’incipit di quello successivo», allora bisognerebbe considerare tutte le opere di King come incatenate e disposte su un piano spaziotemporale ben preciso, che sta ai lettori, per loro gioia e divertimento, ricostruire.

King, noto realista nella vita al di fuori della pagina, non è certamente estraneo alle dinamiche del complottismo e della macchinazione. È facile dunque immaginarlo divertito mentre osserva i suoi ammiratori cercare di ricostruire un puzzle del quale solo lui – se così in effetti è – possiede la chiave risolutoria finale. È un gioco, appunto, per tutti.

Una strizzata d’occhio

Se, però, nei romanzi, nelle novelle e nei racconti degli anni d’oro di King, quel ventennio tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Novanta che lo ha incoronato re dell’orrore, il gioco incarnava un aspetto marginale e secondario della narrazione, una punteggiatura architettata ad arte per mantenere saldo il filo della narrazione universale, fornire alla vicenda presente un livello ulteriore di complessità e profondità e dare una pennellata di realismo e di concretezza al mondo orrorifico che l’autore aveva per le mani, da qualche tempo sembra che le parti si siano invertite.

Complice forse la generale rivalutazione del lavoro di King e la riscoperta del suo immaginario, che da un po’ è rintracciabile in moltissimo cinema, televisione e praticamente ogni nuovo romanzo o fumetto dell’orrore che venga pubblicato, si ha la sensazione che, prima ancora della storia, arrivino gli easter egg.

Holly Gibney è nata come personaggio secondario in Mr. Mercedes (2014), dove affiancava, ma solo casualmente e per poco, il detective dai tratti hard boiled Bill Hodges; poi è ricomparsa in Chi perde paga (2015) e quindi in Fine turno (2016), man mano guadagnando sempre più spazio sulla ribalta. In The Outsider (2018) affianca, come comprimaria di tutto rispetto, l’investigatore Ralph Anderson e, infine, guadagna la sua prima parte da protagonista in Se scorre il sangue, novella che dà il titolo a una raccolta del 2020.

Ora ha un romanzo tutto suo: Holly, pubblicato da Sperling&Kupfer per la traduzione di Luca Briasco.

Per Stephen King, che ha dichiarato di avere un debole per Holly, sembrerebbe trattarsi di un innamoramento in piena regola che, però, pare aver condotto a un costante assottigliamento delle trame e della profondità di campo in favore dell’indagine personale su un personaggio secondario e nemmeno troppo interessante.

Molti dei fan dissentiranno, ma l’impressione è che Holly sia una strizzatina d’occhio, più che nascere dalla necessità di un approfondimento – quel sentimento che di tanto in tanto coglie i romanzieri e li fa seguire, per metterla con il leggendario giallista Rex Stout, «la pista tracciata da un solo personaggio di fantasia, dimenticando tutto il resto, persino la realtà». È un peccato, visto che d’altra parte King non ha mai dato prova di soffrire di crisi creative.

Affetto per il personaggio

La vicenda di Holly, che si trova a gestire l’agenzia di investigazioni private lasciatale in eredità da Bill, si sviluppa su due piani temporali in uno strano gioco di misteri svelati già dalle prime pagine per cui il lettore è perfettamente cosciente di chi siano i cattivi fin da subito e di quale sia il loro malvagio e sadico gioco, ma si trova a osservare Holly mentre cerca di arrivare a una soluzione già conosciuta destreggiandosi tra indizi e personali – continui e un po’ noiosi – inciampi, nel tentativo di affermarsi, più con sé stessa che con chiunque altro, come detective.

È vero, l’affetto per il personaggio emerge chiaro e potente: è evidente che King abbia voluto regalare spazio a Holly perché in qualche modo ha letto in lei un certo potenziale narrativo. Holly è una cinquantenne nevrotica, timida al limite dell’asocialità, impacciata, bizzosa, tutte doti che umanamente non danno nulla in cui sperare, ma che narrativamente possono regalare grandi soddisfazioni.

Però, forse anche a causa dello sfortunato momento contingente – il libro è zeppo di riferimenti al Covid e alle misure di precauzione, a Donald Trump e alla tragica vicenda di George Floyd, al punto da far pensare più all’urgenza di porsi correttamente nel presente che alla necessità di dare contesto – gira su sé stessa senza puntare in nessuna direzione precisa, come se la sua sola presenza bastasse a giustificare un romanzo, forte dell’abitudine che i lettori hanno sviluppato nel vederla comparire nelle pagine appartenute ad altri, crescendo in un universo privato che questo romanzo dovrebbe svelare.

King resta King, e Holly non è un disastro, ma porta con sé una specie di nostalgia da fine estate: un sentimento da nutrire con i ricordi immediati, anche se privo di elementi veramente originali. Che sia in effetti frutto della fame di collegamenti, che King senta che si sta avvicinando il momento di appendere la penna al chiodo e quindi stia cercando di dare ai suoi lettori più elementi possibili per completare il puzzle e concludere il suo gioco ormai cinquantennale, non è dato da sapere. Le fasi alterne, però, sono una costante delle carriere letterarie prolifiche, soprattutto se alle prese con lettori esigenti e puntigliosi. Non dovrebbero preoccupare.

O, almeno, non ancora.

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