«La mattina del 5 febbraio 2007 Elia grida a sua madre che la sciarpa che gli ha regalato fa schifo, e la madre di Elia muore». L’incipit di Bagai di Samuele Cornalba (Einaudi, collana Unici) è folgorante, degno di stare al fianco di quelli ormai classici di Boccalone di Palandri o di Woobinda di Aldo Nove; uno di quei biglietti da visita che ti fa sospettare subito un talento nativo in un giovane scrittore (Cornalba ha 24 anni). I ventenni sono oggetti delicati da maneggiare, soprattutto quando decidono di affidare il proprio destino alla scrittura.

Elia di anni ne ha sei quando accade l’incidente (che verrà spiegato molte pagine dopo: la frase cattiva nata da un capriccio – «aveva detto una bugia, quella sciarpa gli piaceva» – e casualmente meno di mezz’ora dopo la Polo della madre, col padre al volante, sbanda finendo in un fosso) e ne ha diciotto quando si svolge la storia raccontata nel libro. Elia è uno di quei ragazzi che si sentono indifferenti a tutto, ai sentimenti e alle cose del mondo; figura tutt’altro che inedita in letteratura. Ma è la scrittura di Cornalba a renderla intensa e contemporanea.

Tutto è Pandino

Dietro la sociopatia del personaggio e la sua timidezza patologica, che si traduce in negazioni feroci, non è difficile leggere una volontà del giovane scrittore di tirarsi fuori dall’esistere. Le frasi sono taglienti, la paratassi sembra scelta apposta per non farsi coinvolgere dal potere mistificante della lingua “adulta”. «Dalla finestra entra una luce inutile»; «dalla vetrina si vede la nebbia rincretinire il mondo».

Ci sono motivazioni psicologiche che appartengono al personaggio (la morte della madre, appunto, il padre che si sente colpevole dell’incidente), motivazioni che lo spingono ad atti di vendicativo autolesionismo e a negare l’amore. Elia non vuole mangiare, non gli piace essere toccato, indifferenza come difesa. Ma la psicologia cede a un sentimento più universale di estraneità.

Questa è la sua reazione durante il primo incontro impegnativo con la ragazza che lui senza capirlo sta cominciando a desiderare: «È assurdo essere qui, obbligato a esistere nell’emisfero boreale in Europa in Italia in Lombardia in provincia di Cremona nella città di Crema in via del Macello in compagnia di una semisconosciuta». Elia abita, come Cornalba, a Pandino, un piccolo comune lombardo tra Lodi e Crema (i "bagai” sono i ragazzi nel dialetto locale); un paesotto provinciale dove «ci sono più bar che persone interessanti». La desolazione della provincia è un altro tema del libro, se non fosse che «tutto è Pandino».

Inutile lottare, inutile la politica; essere sempre in guerra con quello che non va gli pare «estenuante e stupido, come un paguro che impazzisce per salvare il guscio sfondato». Che la scuola così com’è non abbia senso per lui è un dato di fatto, ma la scuola non è che una parte per il tutto: «tra la sua pelle e il resto del mondo corre un’intercapedine talmente netta che potrebbe misurarla». Quando un amico, che sta litigando con dei maleducati, gli dice «come fai a fingere che non te ne importi niente», lui tranquillo risponde «non fingo».

«Non gli importa di nulla, l’unica cosa che conta sono le erbacce». Una caratteristica di Elia è fissarsi su particolari minimi (un capello, una foglia, un difetto nello sviluppo di una foto) come se in quei particolari fosse racchiuso il segreto della insensatezza della realtà; come l’innaffiatoio nella Lettera di Lord Chandos o la radice di castagno nella Nausea di Sartre. Forse c’è una pienezza delle cose, ma chissà in quale altrove: «il mondo esiste piano e male e non è abbastanza. E mi sembra di vivere in un Quasi».

L’amore si situa in questo Quasi, penetra in lui controvoglia; chi vive in pieno è il padre, col suo «corpo prepotente» che ricorda il padre di Kafka nella lettera famosa. Camilla è la ragazza che incrina l’armatura difensiva, ma al primo minuscolo bacio lui sa dirle soltanto «non avrò cura di te» – e più tardi al «mi ami?» di lei risponde «non significa niente ma mi sembra di no», rubando la frase allo Straniero di Camus. Se c’è qualcosa su cui si può misurare il talento di un giovane è proprio in questo (consapevole o no, non importa) riecheggiare del passato letterario in una esperienza nudamente privata; individuale e metafisica, inconscia ed esposta, sapiente e ingenua.

Le contraddizioni

Però c’è un però. C’è un’incrinatura nel libro, verso i due terzi, che quando ho cominciato ad avvertirla mi ha fatto star male. Una contraddizione stilistica non dominata, ma anche di più, due strati di esperienza esistenziale che non si combinano. Io avevo letto il manoscritto quando Cornalba di anni ne aveva ventuno e frequentava la scuola di scrittura dove insegnavo, allora l’acerba cadenza tragica veniva mantenuta fino alla fine: Camilla era travolta dalle sue crisi personali e al rifiuto di Elia si suicidava, unico momento in cui il protagonista sembrava uscire dalla propria atonia esistenziale.

Poi il libro l’ho perso di vista, è maturato nella cucina einaudiana e nella crescita umana di Cornalba – nell’ultima parte del libro che ora ho di fronte, di Camilla non si nascondono le crisi («Elia non sa cosa dire, sente di trovarsi vicino a un dolore che assomiglia a un’isola»), né la straziante assenza materna («In diciott’anni non mi ha mai detto di lasciar stare. È questo che dovrebbe fare una mamma, dire: Lascia stare. Pulisco io dopo. Chiunque ha bisogno di qualcuno che gli dica: Lascia stare, pulisco io dopo. Solo questo»); ma l’estraneità che la univa a Elia è diventata il bisogno di «cambiare aria» – di uscire da Pandino iscrivendosi a un’università fuori Lombardia e addirittura fuori Italia.

Il “personaggio femminile” (secondo una vulgata oggi prevalente) è stato “rinforzato” e non è più semplice vittima: è Camilla a prendere sessualmente l’iniziativa, è lei che decide di salvarsi procurandosi una borsa di studio per Monaco di Baviera e Elia la accompagna in macchina. L’explicit non è un addio, è un avviarsi insieme verso il futuro.

Il finale ripulito

Si sente che il finale del romanzo è renitente a un banale lieto fine, che però si realizza comunque nel tono e nei temi: lo stile non riesce più a evitare la retorica («il suo profilo è un miracolo di giovinezza»); Camilla scherza «se fossi una ragazza Cass, ora direi qualcosa di scontato sul tramonto», ma Cornalba l’ha già detto mezza pagina prima («guardano le nuvole prendere il colore delle nettarine che matureranno nei prossimi mesi»).

Il verbo al condizionale, che prima era un segno dell’impossibilità a esistere, diventa un verbo sentimentale («vorrebbe accoccolare la testa fra il suo collo e la clavicola… chiedere al dj di non far finire mai quel pezzo, oscillare vicini senza guardarsi»).

Anche il “Quasi” ha perso la sua carica diabolica di negazione ed è diventato un’approssimazione alla felicità («quel contatto quasi erotico quasi tenero»); Elia aiuta un amico a incollare dei manifesti contro il cambiamento climatico; insegna a Camilla a nuotare («a suo modo, ne sta avendo cura»). «Capisce finalmente di non essere in prestito, di appartenere a questo luogo, a quest’acqua, a questa pianura». La piantina di fragole che il padre aveva trascurato ha inopinatamente fatto i frutti, che sono il segno della speranza. Il grido disperato di un adolescente si è trasformato in un romanzo di formazione.

Quel che mi fa star male pensavo fosse un senso di colpa per aver abbandonato il libro al suo destino, o forse più semplicemente è l’invidia per un giovane che ha saputo uscire dal nichilismo. Ma il critico letterario che ancora resiste in me mi obbliga a dire che la svolta tra i due strati appare un po’ volontaristica: più che uno sviluppo coerente assomiglia a due vettori che si tolgono energia a vicenda.

Forse Cornalba, nell’ingenuità dei vent’anni, ha sovrapposto il proprio percorso di maturazione a quello del personaggio, che però era già più forte di lui e non ha obbedito completamente. Che Cornalba abbia le doti per scrivere molte altre cose, e belle, mi pare fuori di dubbio; già questo esordio è più intenso della maggioranza di quelli che capita di leggere. Ma se ancora potessi fargli da insegnante, sia pure vergognandomi, gli raccomanderei di non perdere l’angoscia e la ferocia, senza aver fretta di diventare uno scrittore “come si deve”.

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