Dell’autonomia scolastica le persone non sanno molto. L’opinione più diffusa nel mondo progressista sinistra è che si sia trattato di una riforma giusta e importante tradita da una sua successiva deriva nella direzione del “liberismo scolastico”. Ma è proprio così? Facciamo un po’ di storia.

Negli anni Ottanta c’erano molte ragioni che imponevano nei fatti nuovi meccanismi di governo decentrato del sistema scolastico. Si potevano scegliere diverse vie. Quando se ne inizia a parlare si va però subito in una direzione ben precisa. Nel 1987 un numero monografico di Scuola Democratica, una storica Rivista di intellettuali di sinistra, è dedicato all’autonomia scolastica.

In quel numero della Rivista (n.4/1987) viene pubblicato un documento collettivo del Circes, un gruppo di ricerca diretto da Umberto Margiotta. Il documento delinea una proposta articolata e dettagliata di attuazione dell’autonomia scolastica. La proposta va nella direzione «di una più diretta e aderente risposta del servizio scuola ai bisogni alle domande dell’utenza». Così la scuola istituzione della Repubblica viene subito degradata a semplice servizio (ma la scuola è solo un servizio?) mettendo al centro la domanda. Il documento va oltre: «Se le istituzioni scolastiche dovranno rappresentare un punto di riferimento effettivamente funzionale di fronte alla domanda di formazione che proviene dalla società civile, se dovranno sapersi porre “in concorrenza” con la molteplicità delle agenzie formative – pubbliche e private – sorte in risposta a quella domanda, […], se infine, dovranno “porsi sul mercato” e adeguarsi quindi a criteri di efficacia e di efficienza nel produrre formazione, le istituzioni stesse dovranno essere organizzate secondo criteri radicalmente nuovi». Lo Stato non si dovrà più quindi occupare direttamente della gestione (compresa la formazione in servizio del personale), ma dovrà imporre alle scuole l’obbligo dei risultati, una direzione che sarà poi adottata a livello internazionale al fine di mettere in concorrenza tra loro i sistemi formativi.

Nella Conferenza nazionale sulla scuola organizzata dal Mpi dal 30/1/90 al 3 /2/90 Sabino Cassese offre la cornice costituzionale a una riforma di questo tipo affermando che «la scuola è un servizio collettivo pubblico o nazionale, non statale, a rete». E aggiunge: «Non esiste la scuola, ma esistono le scuole».

A questa lunga stagione di riflessioni che ha coinvolto intellettuali, amministratori, giuristi, sindacati, segue la stagione operativa. Nei primi anni Novanta viene indebolita la zonizzazione delle scuole: ovvero anche nella scuola di base i genitori hanno la possibilità di iscrivere i loro figli in una scuola diversa da quella della zona di residenza purché questo non incidesse sull’organico dei docenti. Ecco il primo passo verso il genitore “cliente”. La vera svolta avviene però nella seconda metà degli anni Novanta con il governo di centrosinistra. È pur vero che nel documento dell’Ulivo La scuola che vogliamo del dicembre 1995 si legge che «l’istruzione è un bene di merito la cui fornitura non può essere lasciata al libero gioco della domanda e dell’offerta», ma questa affermazione non troverà le necessarie tutele nelle scelte operative.

Il carro dell’autonomia

La vicenda dell’autonomia si concluderà con l’art. 21 della L. 59/97 attuata attraverso il Regolamento successivo (Dpr. 275/1999). Viene riconosciuta autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e sperimentazione a tutte le scuole che entro il 31/12/2000 avrebbero rispettato i parametri indicati. Parte così l’autonomia scolastica, fortemente voluta dal Ministro Luigi Berlinguer. Il carro dell’autonomia, tuttavia, parte senza alcune componenti essenziali. Mentre scompaiono gli Istituti regionali di Ricerca e Aggiornamento educativi con funzioni di aggiornamento e formazione degli insegnanti (sostituiti dagli Irre, a cui vengono attribuiti compiti limitati e residuali) nascono gli Uffici scolastici regionali composti quasi esclusivamente da personale amministrativo.

Formalmente non dovrebbe cambiare molto ma di fatto si impone una riforma epocale alle scuole. L’autonomia partirà dunque senza adeguati sistemi di regolazione, con rischi elevati di dispersione del sistema. Dopo il 2001 la politica dell’istruzione in Italia è stata segnata soprattutto dall’azione dei governi di destra. I cambiamenti introdotti, com’era prevedibile, vanno nella direzione di un ulteriore indebolimento del ruolo dello Stato nell’istruzione pubblica senza peraltro fare il passo decisivo verso il modello anglosassone delle autonomie.

Queste azioni di scardinamento si possono giovare di due importanti leve messe in campo dai governi di centro-sinistra: la Riforma del Titolo V della Costituzione (grazie alla quale l’istruzione pubblica non è più considerata competenza esclusiva dello Stato) e la L. 62/2000 sulla parità scolastica. La sinistra non si oppone fermamente come avrebbe dovuto all’ulteriore deriva. Nel 2005 un gruppo di intellettuali di diverse aree denominato “gruppo del buonsenso” pubblica un testo (Tutta un’altra scuola, Il Mulino, curatori Vittorio Campione, Paolo Ferratin, Luisa Ribolzi) in cui si propone un sistema competitivo tra le scuole, la libertà di scelta della scuola (sia statale che paritaria) da parte delle famiglie, la gestione in proprio da parte delle scuole delle risorse economiche e del personale e una “regia informativa e di accountability” del sistema.

Alcuni degli estensori di questo documento avevano già contribuito a scrivere il documento dell’Ulivo sulla scuola del 1995. Non tutte queste proposte vengono accolte ma la direzione è sostanzialmente questa.

Zonizzazioni deboli

E arriviamo a oggi, al governo più di destra che c’è mai stato nella Repubblica italiana, e assistiamo a un ulteriore indebolimento delle zonizzazioni, nate, come si sa, per favorire la mescolanza sociale dei futuri cittadini ed evitare la “clanizzazione” della società.

Sul sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito oggi si legge: «La scuola scelta in fase di iscrizione deve stabilire una graduatoria di iscritti sulla base di regole e criteri di precedenza nell’ammissione deliberati dal consiglio di circolo o d’istituto».

Certo alcuni dei suoi promotori avrebbero voluto un’autonomia diversa (ad esempio rendendo operativa l’autonomia didattica, peraltro mai promossa realmente, e Uffici scolastici regionali con compiti di qualificato supporto pedagogico), ma forse non avevano compreso la direzione della storia (altri think tank anche della sinistra sì), quella verso una società di mercato in cui la scuola, da istituzione della Repubblica diventa un servizio a domanda.

È una direzione accolta sostanzialmente in modo bipartisan a livello politico (le parole contano poco, contano le norme e soprattutto le azioni successive). Con quali conseguenze sulla società lo vediamo oggi: tendenza alla clanizzazione della società (scuole di ceto), maggiori difficoltà per le aree più fragili poco sostenute dallo Stato (difficoltà del sistema scolastico, limitate solo grazie alla supplenza di associazioni ed enti del Terzo settore), “proletarizzazione” degli insegnanti reclutati in una “macchina scuola” che è necessario prima di tutto far funzionare per sfornare i consumatori e i lavoratori a basso costo di domani.

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