Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta Giulio Einaudi è già alla ricerca di un finanziamento da parte di qualche istituto bancario, di una boccata d’ossigeno che consenta alla sua casa editrice di sopravvivere.

Enrico Cuccia in una lettera gli risponde così: «Ritengo doveroso, per evitarLe un ulteriore disturbo, di comunicarLe subito che una Sua richiesta di finanziamento avrebbe assai scarse possibilità di venire accolta». E, quasi con uno sbeffeggiante eufemismo, il capo di Mediobanca conclude così: «Spiacente che non vi sia possibilità di venire incontro alle esigenze finanziarie del Suo interessante programma editoriale».

Ma come, l’editore più influente d’Italia, il figlio del primo Presidente della Repubblica, trattato alla stregua di un questuante?

Una storia italiana

Questo perché la storia di Giulio Einaudi (e inevitabilmente della sua casa editrice) non è quasi mai come appare. Di Einaudi s’è detto che era un accentratore, che amava tenersi il potere tutto per sé. In realtà fino al 1944 lo spartisce volentieri con Leone Ginzburg, prima che quest’ultimo muoia nel carcere romano di Regina Coeli, torturato dai tedeschi. E non c’è nessuno che ami il dibattito più di Einaudi, un dibattito che spesso si traduce anche in violente discussioni simili a duelli. Spesso però la piega che prendono le sue relazioni coi redattori è canzonatoria, e quest’ultimi non si fanno certo intimorire dal loro capo.

Nel 1942 Cesare Pavese lo apostrofa così, in una celebre missiva che è un gigantesco scherzo: «Avendo ricevuto n. 6 sigari Roma – del che Vi ringrazio – e avendoli trovati pessimi, sono costretto a risponderVi che non posso mantenere un contratto iniziato sotto così cattivi auspici. Succede inoltre che i sempre rinnovati incarichi di revisione e altre balle che mi appioppate, non mi lasciano il tempo di attendere a più nobili lavori. Sì, Egregio Editore, è venuta l’ora di dirVi, con tutto il rispetto, che fin che continuerete con questo sistema di sfruttamento integrale dei Vostri dipendenti, non potrete sperare dagli stessi un rendimento superiore alle loro possibilità».

Un despota avrebbe mai accettato di sedersi a un tavolo ovale ogni benedetto mercoledì? Di quelle riunioni sono stati svelati i misteri nel volume curato da Tommaso Munari I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali 1943-1952 (Einaudi 2011), errori marchiani compresi: il Comitato rifiuta per ben due volte Se questo è un uomo di Primo Levi, riserva un tiepido entusiasmo per l’opera di Mircea Eliade, ostacola la divulgazione di Friedrich Nietzsche (per offrire ai lettori italiani il pensatore nichilista ci volle lo scisma che nel 1962 portò alla fondazione da parte di alcuni einaudiani della Adelphi).

Il comunismo

S’è detto che la casa editrice per troppo tempo sposò con sussiego la linea culturale dettata dal Pci. Certo fa specie sapere che nel 1949 l’idea di Elio Vittorini riguardo a “un volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obbiezioni” non vedrà mai la luce (nonostante le insistenze di Balbo e Calvino che ripudiavano il concetto di casa editrice come biblioteca di partito).

Ma già nel 1933, quando Einaudi riunisce alcuni amici del Liceo D’Azeglio di Torino attorno alla rivista del padre “La riforma sociale”, sono cominciate le persecuzioni fasciste, i confini, le temporanee fughe all’estero di Vittorio Foa, Massimo Mila, Carlo Levi, Norberto Bobbio e Cesare Pavese…  E quella postbellica è un’epoca manichea, zuppa d’ideologia, in cui si deve assumere una posizione politica netta: se non ti schieri da una parte sei iscritto d’ufficio all’altra.

Giulio Einaudi con il padre Luigi

L’umorale

S’è detto che Einaudi nei confronti del catalogo era troppo umorale, che poteva amare e poi detestare un titolo nello spazio di un mattino. Ma in fin dei conti sono gli autori i primi a volersi fare corteggiare, capricciosi come bambini e vanesi come prime donne (Michel Foucault si fa inseguire fino a Tunisi per la cessione di un libro che non avvenne mai; Henry Miller se la prende per una sconfitta a ping pong).

In questo senso, tre titoli ristabiliscono meglio di altri il rapporto tra editore e scrittori: Tutti i nostri mercoledì libro intervista a cura di Paolo di Stefano (Casagrande 2001), Alfabeto Einaudi di Guido Davico Bonino (Garzanti 2003), I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero (Feltrinelli 2005).

Così, scopriamo che nel fondo dei temutissimi occhi glaciali di Giulio Einaudi non smette mai di brillare una scintilla di passione per i libri. E che, come per magia, quel suo atteggiamento urticante e severo (nato più che altro per nascondere un complesso d’inferiorità che veniva dai suoi studi irregolari, al cospetto di collaboratori che di volta in volta potevano chiamarsi Gianfranco Contini, Giorgio Manganelli, Ruggiero Romano) sprigiona un fascino irresistibile.

Giulio Einaudi al di là di una megalomania di facciata conosce bene i suoi limiti e si affida spesso agli altri. Un’intuizione su tutte: l’aver coinvolto nell’ideazione delle copertine un genio assoluto del design come Bruno Munari. In questo modo si arriva ad esempio alla collezione di poesia con i versi su sfondo bianco. E a fare di quel minimalismo immediatamente riconoscibile il biglietto da visita della casa editrice.

Il nobile fallimento

ANSA

Negli anni Ottanta la contabilità salta per aria definitivamente. Giulio Einaudi viene travolto da una tempesta finanziaria e subisce l’onta di un’inchiesta giudiziaria. Proprio lui, che di certo non si era messo a fare i libri per arricchirsi.

Dopo un commissariamento, la casa editrice viene rilevata da un gruppo che fa capo alla Electa e poi, ma questa è storia recente, acquisita dalla Mondadori. D’altronde, come ebbe a dire Giulio Bollati riguardo alla spericolata gestione economica del suo capo: «Einaudi è un capitalista di tipo speciale. Non mira ad accumulare profitti: accumula prestigio».

Dichiarazione forse paradossale ma significativa, visto anche l’andazzo dell’editoria odierna. Un’editoria che ha smesso di ragionare per collane e che discute di libri solo per sviscerarne le potenzialità commerciali. Giulio Einaudi al contrario ha lavorato bene: perlomeno è fallito.

L’eredità 

Se pensate che la cultura bestsellerista mai come oggi abbia vita facile, che la tecnica abbia scalzato lo stile, che in un rigurgito rancido di politicamente corretto il “cosa” abbia fagocitato il “come”, che le saghe e l’iper-romanzesco ci abbiano lasciato come unica prospettiva lo storytelling, che il giallo e le scritture di genere siano il nuovo midcult, che tutto venga ossessivamente ridotto a una somma (vendite e canoni), che i giornali siano totalmente asserviti a queste dinamiche offrendo copertine, aperture, speciali e interviste al mass market, che molti premi stiano abdicando al ruolo elitario di riconoscere la qualità e cerchino – viva la democrazia progressista! – i libri più “chiacchierati”, allora non vi potrà dispiacere ciò che ha rappresentato e continua a rappresentare la casa editrice dello Struzzo, il cui motto è da tenere a mente: Spiritus durissima coquit, ossia lo spirito digerisce le cose più dure.

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