Per tutto il Novecento filosofico ha prevalso l’idea che il parlare preceda il credere, nel senso che le parole che ci s’insegnano nei primi mesi di vita determinano il modo in cui pensiamo e vediamo il mondo. A dispetto di un fraudolento atomismo, ogni parola racchiude in sé un’intera concezione della realtà come fosse il pezzo di un frattale.

Negli ultimi decenni, la consapevolezza del portato ideologico delle parole ha favorito un atteggiamento più cauto nei confronti dei loro effetti meno visibili, tanto che va crescendo il catalogo dei termini proibiti. Un esempio non controverso né spinoso è come un tempo si chiamavano le popolazioni di zone della Terra meno porose allo sviluppo capitalistico di stampo euro-americano.

Se fino a qualche decennio fa queste popolazioni si definivano “primitive”, aggettivo che rimanda alla condizione poco edificante di uno sviluppo comparativamente arretrato, con assai più ritegno si definiscono oggi “indigene”. Questo vale per tutte quelle parole che in passato, con colpa o con dolo, veicolavano disprezzo o disdegno nei riguardi di certi modi di vita e che pertanto oggi vengono considerate come vestigia di ideologie retrive, oltreché segno della barbarie di chi continua a farne uso.

La libertà di parola

Nei suoi risvolti politici, questa intuizione teorica presenta la cultura di un paese quale terreno di lotta su cui si fanno prevalere certi insiemi di idee e di valori per mezzo delle parole che vengono fatte circolare e, meglio ancora, di quelle che vengono proibite.

Non sorprende allora che su questo terreno erompa oggi un nuovo confronto epocale tra due schieramenti opposti (ma forse solo in apparenza). Da una parte, c’è appunto chi da metà o fine del secolo scorso, sulla scia di nutriti studi in ogni campo del sapere, ha voluto “sensibilizzare” chi parla sulla necessità di vagliare quanto si dice e come lo si dice.

Secondo costoro, bisogna espungere dal nostro paniere semantico certe parole relative alla provenienza etnica, al colore della pelle, all’orientamento sessuale, al genere, alla condizione economica, e a molti altri aspetti della vita, che sono ritenute lesive della dignità di intere cerchie di persone. Dall’altra parte c’è invece chi si oppone a questa politica della sensibilizzazione con l’argomento per cui il nuovo “dizionario del ben parlare e del ben pensare” favorisce valori e idee che tradiscono chiare appartenenze di parte.

Altro che filtrare le parole offensive! – dicono – Si vuole impedire il dissenso su una concezione del mondo che appartiene a una parte della società. Ne sortisce una singolare zuffa sulla libertà di parola e di pensiero. I membri della seconda schiatta ritengono infatti che da decenni, forse dalla fine del secondo conflitto mondiale, sia in corso un’epurazione militaresca di tutto quanto non s’adatta all’ideologia dominante. E costoro s’appellano puntualmente alla libertà di parola, di cui si proclamano difensori con uno zelo pari solo a quello con cui i produttori di armi statunitensi difendono il secondo emendamento.

«Non si può dire più nulla»

Eppure, come accennavo, le posizioni rischiano nella sostanza di essere più vicine di quanto si creda. Per un verso, chi elogia la libera parola (che spesso è parola in libertà) ingaggia una guerra di trincea che mira alla riconquista della cultura del paese metro dopo metro. Reintroduce lemmi discutibili, solleva temi studiatamente polemogeni, si fa alfierə di certi valori controversi con persino più convinzione di quanta in coscienza ne nutra.

Con ciò crede (e a volte confessa) di star conducendo una sorta di crociata semantica e simbolica, utile a ristabilire le sorti di chi è statə sconfittə dalla storia e s’è visto soffocare il pieno diritto all’esistenza pubblica. Lo fa con affettata trascuratezza, non perché manchi di linguaggio (almeno in taluni casi), ma perché ciò fa parte dell’armamentario guerresco: si tratta di una guerra di liberazione che reclama le sue esecuzioni pubbliche, cruente quanto si vuole, ma necessarie per lanciare un messaggio.

Dal canto opposto, chi mette l’accento sul ben parlare grida all’empietà e impetra nuove censure. Per paradosso, questa tattica finisce per dare man forte a chi lamenta gli effetti del silenziamento: se un tempo si poteva dire poco, oggi pare non si possa dire niente.

A chi giova la censura

Benché qui si sia di parte, perché si ritiene che certe parole siano cariche di residui ideologici in grado di peggiorare e di molto la vita di certe persone, si corre il rischio concreto che la strategia di queste due opposte schiere converga. E non è un bene, perché la corsa diventa al ribasso e il chiasso che ne sortisce strania.

I nuovi crociati dei valori controversi occupano tivvù e giornali con posizioni da cui non si ricava altro che una cerimoniosa voglia di farsi sentire, mal sostenuta da una penuria di argomenti altri che il trito richiamo all’altrui violenza censoria. Dal canto suo, il fare neo-censorio s’illude di erogare un servizio utile all’umanità quando tenta di coprire la voce della parte avversa con strepiti ancora più stentorei o con bandi dal consesso civile.

Eppure, credo che da una parte e dall’altra si fraintenda l’intuizione fondamentale della filosofia del Novecento, cui mi riferivo in apertura. Una declinazione più convincente è offerta, ad esempio, da quelle teoriche femministe che, in polemica con altre teoriche femministe, pongono sensate obiezioni alla censura della pornografia – penso in particolare al dibattito di qualche tempo fa tra Catharine MacKinnon e Judith Butler.

Da una prospettiva femminista, chi si oppone alla censura non nega certo l’immagine ignominiosa e degradante della donna offerta nel panorama pornografico, ma avverte sul rischio che la repressione, per paradosso, possa rafforzarla – renderla cioè più proibita, quindi più desiderabile e desiderata.

La tesi di fondo è che la minaccia della censura fa il gioco di coloro che piangono le stimmate sulle proprie mani, non solo perché potranno dirsi vittime, ma perché potrebbero raccogliere inattesi consensi. Nella repressione moralista, per giunta, il rischio è che, per sostenere le ragioni di un linguaggio non lesivo, la sola strategia adottata consista nel convergere su quella che si suppone essere la parte del bene, che si oppone al male con ogni mezzo: due terreni separati da linee pretese prive di sbavature. Così, l’“affettuoso didatticismo” di un tempo, come lo chiamava Giorgio Manganelli, si fa intimazione al silenzio.

Come ottenere l’egemonia

Il punto, quindi, è capire se il tentativo di rivincita ideologica a mezzo grida, messo in atto oggi in molte aree della cultura alta e bassa, abbia davvero chance di successo e se tentare di soffocarle non le accresca.

Non è un caso che teorici della politica di destra, come Carl Schmitt, o di centro, come Costantino Mortati, o di sinistra, come Antonio Gramsci, si siano prodotti in analisi un poco più sostenute sul come ottenere l’egemonia nel campo della cultura e quindi della politica. Fosse stato sufficiente quanto accade oggi, sarebbe bastato un riferimento al pamphlet sull’arte di ottenere ragione del loro più anziano e più insigne collega Arthur Schopenhauer – notoriamente incapace, almeno in vita, di fare l’egemone. L’egemonia, ammesso la si possa davvero ottenere, richiede strategie più ponderate e, più di ogni altra cosa, la capacità rara di non attirare l’attenzione.

Tre, quattro pagine

Sicché, le odierne espressioni di stupefacente tracotanza è bene non vadano incontro a nuovi atti di censura. Per due ragioni. La prima, e più importante, è che nulla merita censura, a meno che chi parla o agisce non intenda programmaticamente far torto o male.

La seconda, e forse più interessante, è che le voci di dissenso, finanche le più sguaiate, fanno luce sui nostri inavvertiti micro-fascismi, secondo la felice espressione di Gilles Deleuze: il fascismo è ovunque, in specie nel nostro inconsapevole desiderio di riattivarlo su tutt’altro ordine di scala, quando la sua giustificazione sembra inappuntabile e si rivela invece autoimmune.

Insomma, sul clamore che oggi destano certe prese di posizione farei valere il giudizio che Manganelli espresse a proposito della scrittura di Anna Maria Ortese: «Forse in quegli anni potevamo polemizzare un po’ di meno sui libri di Bassani e Moravia, e leggere L’Iguana. (…) Basta leggere tre, quattro pagine, e vediamo scomparire scaffali su scaffali di libri contemporanei».
 

© Riproduzione riservata