Questa storia inizia con Les feuilles mortes e finisce con Je ne regrette rien, due pilastri canori della Francia struggente. Comincia con Woody Allen, passa incidentalmente per Roman Polanski e finisce con Luc Besson. Tutti e tre sono «persone non grate», si usa questa precisa espressione, al Festival di Cannes. Tutti e tre sono a Venezia con i loro film, Besson in concorso.

È un’occasione per riflettere sul malinconico impero della gogna al festival di Thierry Frémaux: cuci tre lettere scarlatte e salvi la facciata, ben sapendo che torme di molestatori si aggirano indisturbati nelle tue stanze del business. È la vecchia, comoda tecnica del parafulmine. La chiamano cancel culture, ma cancella anche un diritto primario del pubblico: quello di vedere i film dei cosiddetti reprobi.

Un film boicottato dai festival ha anche problemi distributivi. Il buon senso sembra diventato una virtù rara. Venezia, che se ne è sempre placidamente infischiata anche delle quote rosa nella selezione ufficiale, usa criteri più laici. Dei tre, Woody Allen, col suo Coup de chance arriva buon ultimo. Ha 87 anni, questo è il suo cinquantesimo film, forse l’ultimo, e vorresti abbracciarlo per la sapiente leggerezza che ti regala. Girato interamente in francese, ha un trio di protagonisti francesi: i giovani Lou de Laâge e Niels Schneider e l’étoile Melvil Poupaud.

Woody Allen

Les feuilles mortes, cioè la memoria condivisa della canzone, è galeotta nell’incontro casuale di Fanny con Alain, vecchio compagno di liceo che scriveva sul giornalino scolastico. Lui è un bohémien che sta scrivendo un romanzo, lei lavora in una casa d’aste ed è sposata con un bell’uomo «deliziosamente solvibile», come dicono spettegolando i suoi amici chic. Dicono anche che Fanny è la sua moglie-trofeo, e che Jean è una specie di Gatsby. Dietro il suo misterioso successo c’è un socio scomparso nel nulla. «Aiuto chi ha soldi a fare più soldi», dice a Fanny.

Nella filosofia di Allen (e nella sua fimografia) da sempre è ben radicato il concetto dell’ironia della vita: siamo tutti vittime del caso e delle coincidenze. Di questo parla il libro che Alain sta scrivendo. Il marito ricco ovviamente milita sul fronte opposto: «La fortuna me la costruisco». Allen sparpaglia le sue idiosincrasie personali in dettagli. La mamma di Fanny, come lui, è allergica agli e-book: «Devo sentire la carta sulle dita e girare le pagine».

Quando le assenze della moglie, ormai diventate un affaire amoroso, lo insospettiscono, Gatsby-Jean, che divide i suoi passatempi tra i trenini elettrici e la caccia al cervo, assolda un detective e scopre la tresca. E allora rivela la sua vera natura. Una squadraccia di picchiatori addetti al lavoro sporco replica con il disgraziato scrittore il servizietto che aveva cancellato dai vivi il suo vecchio socio. E tutto finirebbe tristemente in gloria come in Match Point, con la moglie convinta dell’abbandono dell’innamorato, senza il fiuto poliziesco della suocera. Per sbarazzarsi anche di lei, niente di meglio di un incidente di caccia. Sul colpo di fortuna che cambia le carte in tavola, secondo le sliding doors della sorte, gli appalusi, qui nelle sale veneziane, fanno crollare il soffitto.

«Le nostre probabilità di esistere sono una su 400 biliardi – è la morale – Ogni persona sulla terra è un mondo che esclude milioni di altri casi». È leggerezza profonda e benefica.

Con leggerezza, in conferenza stampa, Allen commenta anche il #MeToo che lo crocifigge: «Penso che qualsiasi movimento in cui ci sia un beneficio reale, in cui si fa qualcosa di positivo, diciamo per le donne, sia una buona cosa. Quando diventa sciocco, è sciocco». Per inciso, il cittadino di Manhattan per antonomasia è stato prosciolto in tutti i procedimenti aperti a suo carico.

Roman Polanski

Non rinuncio a sperare che The Palace, il film di Roman Polanski a Venezia fuori concorso come Coup de chance, si riveli una fantasmagorica burla. Salterà fuori un signor nessuno che l’ha girato al posto suo. Il solo flash di humour nero di marca è il faccione di Putin che dagli schermi tv abbranca lo scettro da zar del terzo millennio. Si può ridere del paradosso grottesco: è ancora là.

Come ogni creatura di buon senso, ho sempre difeso, prima ancora che l’artista Polanski, il mio e altrui diritto di applaudire i suoi film. E anche il diritto di non applaudirli: il carosello di cariatidi in fibrillazione per il Capodanno 2000 non appartiene al suo zoo personale.

Ufficialmente firma la sceneggiatura con il suo vecchio sodale Jerzy Skolimowski del debutto, Il coltello nell’acqua, ma Gstaad, dove P. ha casa e dove torreggia il Palace hotel del film, credetemi, è un depistaggio sardonico.

A vari stadi di imbalsamazione, Mickey Rourke, John Cleese, Joaquim de Almeida e l’ex divina Fanny Ardant fanno cose bislacche. Ma il vero P. davvero, anche a novant’anni suonati, esporrebbe al ludibrio una irriconoscibile Sydne Rome, la sua ninfa nuda di Che?

Non è per caso che il film lo ha diretto Luca Barbareschi, promosso qui pornodivo al tramonto con relativi leggendari attributi? I Fichi d’India e tutta la corte vanziniana dei cinepanettoni a una farsa così si sarebbero ribellati: troppa volgarità e troppe trovate stantìe. Chi ride più per la cacca canina e per i vecchioni freddati da un orgasmo fatale?

E chi ha l’impudenza di mettere in satira i paradisi effimeri degli happy few dopo il verbo evangelico di Ruben Östlund con Triangle of Sadness? Il vero autore di The Palace si faccia animo e batta un colpo. Per il suo reato non è prevista la ghigliottina. I devoti del vero Polanski lo benediranno in eterno e quando andranno a vedere il film in sala, a fine settembre, magari non schioderanno le poltrone per rappresaglia.

Luc Besson

La lettera scarlatta appioppata a Luc Besson è più recente, non vanta decenni di gogna mediatica, e  la cronaca registra un’assoluzione formale fresca di un paio di mesi. Cannes però ha regalato a Venezia il suo irresistibile Dogman, che come il film di Allen uscirà in Italia con Lucky Red.

Nell’epilogo parte l’inconfondibile crescendo di Je ne regrette rien, tanto per chiudere il cerchio delle canzoni-monumento. Ed Édith Piaf sembra cantare per Douglas, per tutti Doug, che suona come Dog, cane. Anche perchè in una senzazionale sequenza Doug è ‘diventato’ la Piaf in versione drag queen, canta in playback La foule, un suo cavallo di battaglia, con un dolore e una intensità da brividi. Sulla forza di interprete di un Caleb Landry Jones da premio, Besson ha fabbricato un nuovo Joker, che al posto dei pipistrelli ha per marchio, destino e famiglia i cani.

Alphonse de Lamartine fornisce la didascalia introduttiva: «Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane». Chiunque abbia scelto la convivenza con un quadrupede di quella specie sa che non è una fandonia. Allen ha traslocato a Parigi, il francese Besson sceglie Boston. Douglas è un reietto, un outcast, vessato da un padre sadico e relegato bambino sine die nella fetida gabbia dei cani da combattimento.

I maschi di casa, come tutti i maschi del film, sono bestie, tendenzialmente anche fanatici religiosi. Letto a rovescio, God diventa Dog. E il regista di Nikita, l’antieroina che come ricorderete trentatré anni fa aveva fatto perdere le sue tracce nel finale del film, con Dogman ce la riporta nel cuore, cambiata di sesso ma en travesti. Doug è un anti(super) eroe in sedia a rotelle, con le gambe costrette in tutori e cinghie da horror. La favola nera della sua vita la racconta per gradi a una psichiatra del carcere in cui legge ferite gemelle. I cani sono la sua famiglia, la sua protezione e gli unici amici fedeli. E di queste creature lui è il Pifferaio Magico. Freak, ladro, giustiziere, autodidatta devoto a Shakespeare e imprevedibile star di un drag show in cui evoca le divine, Marlene Dietrich e Marilyn oltre alla Piaf: Dogman dispensa furore dark a piene mani. Non c’è niente da rimpiangere, quando il finale lo decidi da te. Je ne regrette rien, appunto.

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