Il mondo ha sempre complottato contro la letteratura, e oggi sembra proprio di essere arrivati al capolinea. Il mondo ha vinto, la letteratura ha perso.

Se sei uno scrittore del futuro devi sapere che la tua sopravvivenza non è per niente scontata, e siccome non sei furbo ma molto intelligente, devi stare accorto e ascoltarmi bene.

La filiera editoriale ha abdicato al suo ruolo culturale – che pretese novecentesche, guidare il paese pubblicando libri! – ed è diventata un’impresa volta al profitto come qualsiasi altra. Indistinguibile da una fabbrica che produce viti o biscotti o profilattici, se entri in una libreria e compri due libri ti regalano una shopper (o forse il contrario, se compri una shopper ti regalano due libri).

Non si sa più se la casa editrice ha un ufficio marketing o se è l’ufficio marketing ad avere una casa editrice, il mercato dette la linea editoriale e non più solo quella commerciale, come vorrebbe il buon senso e la parola stessa, tutta la teoria oggigiorno disponibile la si trova riassunta nelle categorie merceologiche apposte sopra le scaffalature delle librerie di catena: gialli, rosa, fantasy.

Dove un tempo c’era la critica letteraria troverai caterve di manga, la poesia ridotta a colonnine doriche defilate vicine ai back office, ai magazzini, più che già pronta per la resa si direbbe cristallizzata nella resa, esposta lì come esempio da non seguire, «Semmai vi venisse in mente di mettervi a scrivere, guardate che fine fanno i poeti».

L’accademia, i media, i premi

Si pretende che l’intrattenimento sia l’unica letteratura possibile, quando invece si dovrebbe ammettere che la letteratura è sempre stata anche intrattenimento, con elementi da soap che poi la cultura bestsellerista ha isolato per costruire le nuove narrazioni per il ceto medio, storie bidimensionali che saturano il mercato e rendono gli scrittori indistinguibili l’uno dall’altro, è la dittatura dello storytelling, è il consumismo più bieco, “L’ho divorato in una notte” è la fascetta programmatica di questa bulimia da sciroccati, poi basterà mettersi due dita in gola.

Non aspettatevi nessun aiuto da parte di nessuno, l’accademia è distratta e stanca, i mezzi di comunicazione troppo presi a far rimbalzare le veline degli uffici stampa editoriali.

Son tutti capolavori pubblicati a getto continuo, il romanzo più bello dell’anno, del mese, della settimana, del giorno, del secondo. L’amarezza dell’ipocrisia potrebbe darvi reflusso gastrico.

La gente dei media offrirà solidarietà perché provare a scrivere letteratura di questi tempi è durissima, noi ci siamo, noi ti supportiamo, noi siamo dalla tua parte. Poi quando chiederai spazio si volatilizzeranno.

Saranno troppo impegnati a fare un’intervista a un autore, preferibilmente straniero, campione indefettibile dell’intrattenimento bestsellerista, che afferma «Siamo tutti fratelli» o «La letteratura serve a vivere le vite degli altri». 

I premi non fanno eccezione a questo andazzo, presìdi culturali apparenti, vogliono il noto per manifesta incapacità di sapere trafficare con l’ignoto. Inoltre un premio dovrebbe essere una sciocchezza, lo prendi, fai l’inchino e te ne vai. Invece stiamo assistendo a una nevrotizzazione di queste lotterie nazionali che è un impoverimento: più si parla dei premi meno si parla di letteratura.

Il denaro

Non interessarti al denaro in nessun modo. Non per vecchie posture ideologiche – il denaro è lo sterco del diavolo! – ma solo per reale disinteresse, per indifferenza.

Il denaro è il feticcio del capitale e produce narrazioni irrilevanti, la rete di fatto pullula di storia di gente che ce l’ha fatta (e per farcela s’intende sempre e soltanto una cosa: fare i soldoni, diventare ricchi), invece devi diventare il contrario dei Ferragnez (limitiamoci al guardaroba, ammira le foto di Sandro Penna, un cardigan coi bottoni saltati, un paio di logori pantaloni di fustagno, il top di gamma, la coolness suprema), i soldi saranno una rottura di coglioni per mettersi un pc davanti agli occhi e una sedia sotto al culo.

Usa qualunque mezzo ti consenta di scrivere almeno un paio d’ore al giorno, sposa un’ereditiera o iscriviti su OnlyFans, non lasciarti irretire da nessuna morale sociale e, tantomeno, da nessuna retorica del lavoro.

Fate gli schiavi per guadagnarvi la vostra libertà scrittoria e non per andare in vacanza (a continuare a farvi schiavizzare dagli albergatori, dai ristoratori, dagli erogatori dei vari servizi turistici).

Sabota questo mondo sul serio, dal di dentro, non servono rivolte esteriori, ma unicamente togliere senso al sistema valoriale in atto, guadagnati uno sguardo originario e non la pagnotta, digiuna alla bisogna, e sappi che il modello ideale di fuoriuscito resta il barbone, non essere un buon cittadino ma un critico spietato (innanzitutto di te stesso).

Le storie vere

Resisti al richiamo delle sirene dell’io, dell’autobiografismo, della storia vera. Scappa da ciò che rende indistinguibile la letteratura dall’autofiction che ognuno di noi fa già sui social network.

Rimarca lo iato tra letteratura e vita, non assottigliarlo. Non impigritevi, non cercate l’immaginazione più prossima, ma quella più distante e apparentemente inaccessibile. Laggiù c’è il regno della letteratura, che sarà sempre un’ombra rivelata.

Gianluigi Simonetti, uno dei nostri critici superstiti, scrive così: «Magari non lo sappiamo, ma privilegiando il vero sul finto rovesciamo una gerarchia millenaria, fondativa anche della sensibilità artistica occidentale. Basti ricordare che la Poetica di Aristotele – il trattato che ha fissato per secoli alcune delle nostre più importanti categorie estetiche – attribuiva alle storie inventate allo scopo di imitare le azioni umane il più alto prestigio culturale e artistico».

Quando si scrive di ciò che non si è o di ciò che non si sa bisogna colmare lo scarto con l’immaginazione. È una operazione pienamente possibile – e anzi legittima, auspicabile – soltanto in letteratura.

L’immaginazione non serve quindi solo alle scritture fantastiche, ma dota il reale di nuove possibilità, punti di vista inconsueti o imprevisti. Così, nel corso della mia ormai non breve attività, ho potuto parlare di matrimonio senza essere sposato, di omosessualità essendo etero, di preti essendo laico (e forse ateo).

Anche quando ho parlato di scrittori mi sono sempre ben guardato dal parlare di me, proprio per non rinunciare a quello scarto tra realtà e finzione funzionale all’immaginazione.

E la mia biografia? Tutti i libri che ho scritto provengono dai miei dolori profondi, dai miei traumi irrisolti, dalle mie delusioni, dai miei lutti, dalle mie malattie, dalle mie fragilità. Tutto questo è la causa della mia scrittura, non la rappresentazione in cornice. Ancora e sempre, penombra e immaginazione.

Un concorso per ossessionati

Il talento va bene, ma da solo non basta. La tua vera qualità somiglierà molto a una tara, più che un pregio sarà un difetto fondamentale: la perseveranza.

Non dirlo a nessuno, non definirti mai in pubblico (sennò arriverà subito qualcuno a metterci il cappello e a monetizzare, l’industria dell’anticonformismo è una delle più floride, nei decenni scorsi abbiamo visto una parata di intemperanti ammaestrati).

La scrittura è una roba maledettamente vischiosa, un gel idrocolloidale, una sabbia mobile che ti inghiotte se non te ne sai tirare fuori. Ecco, la scrittura non salva, bensì te ne devi salvare.

E salvarsi significa finirla, estinguerla, giorno dopo giorno, ben sapendo che davanti avrai altre pagine bianche che esigeranno di essere imbrattate, che tenteranno di sprofondarti dentro l’abisso della mala scrittura, della frase errata, della metafora fumosa, del detto male, dello spiegato più che rappresentato, della tecnica che primeggia sullo stile, del ritmo sbagliato, del tema o del personaggio sfocato, del gesto fiacco, pagine su pagine come paludi da guadare. Si riesce solo con l’ossessione. Scrivere è un concorso per ossessionati.

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