Alla fine il lutto diventa immortale e il buco è più familiare del dente. La lingua stuzzica la radice fantasma, la mente ispeziona le cavità del cuore per verificare che sia vuoto. C’è la cosa in sé e poi c’è la condizione del suo essere cava». Così scrive Karen Green in Il ramo spezzato, libro che cerca di fare i conti con il suicidio del marito David Foster Wallace che lei trovò impiccato nel loro garage. Il ramo spezzato ha un forma complessa e variegata, composto da stralci di diario, pagine bianche, poesie, immagini, come se il suo aspetto centrifugo cercasse di comunicare il vagare attorno a un’assenza che non si fa afferrare, un dolore, quello di chi resta, per il quale non sembra esserci possibilità di pace se non mettere in conto di covarlo per sempre.

Anche il nuovo libro di Matteo B. Bianchi ruota attorno al vuoto fitto di interrogativi e sensi di colpa in cui sprofonda chi rimane, chi sopravvive al suicidio di una persona parte integrante della propria vita. La vita di chi resta, Mondadori, è infatti un memoir incentrato sul suicidio del compagno S., che si toglie la vita nell’appartamento dove per anni avevano vissuto assieme pochi mesi dopo la fine della loro storia.

Da quel giorno sono passati venticinque anni, ma la distanza temporale non attutisce la devastazione di quel momento. I due decenni sono serviti però per costruire questo «lutto in forma di romanzo», un libro limpido e doloroso che non vuole chiudere nessun discorso con il passato, ma che sembra piuttosto offrire a Bianchi l’opportunità di disegnare l’itinerario di un dolore radicale, di circoscrivere la forza trascinante di una voragine che rischia di portare con sé ogni cosa. Il suicidio di S. getta l’autore in una confusione percettiva dove l’esperienza sensibile galleggia tra la vita e la morte («Io sono la vita con lui e la sua assurda morte») e tutto il mondo che si muove attorno perde di interesse, sfumando i suoi contorni e facendosi innocuo e inutile complemento alla sofferenza. Non esiste più distinzione tra sfera pubblica e privata, tra infanzia ed età adulta («Torno bambino. Mamma, papà, venitemi a prendere. Accuditemi. Regredisco al me stesso infantile»), una regressione all’apparenza inarrestabile piena di sensi di colpa («Mi sono chiesto molte volte cosa sarebbe accaduto se gli avessi ritirato quelle chiavi. Senza questa possibilità pratica avrebbe dovuto organizzarsi diversamente, prendere più tempo? In quell’intervallo prolungato avrebbe potuto ripensarci?») e di un dolore interstiziale che «coglie all’improvviso», come un «neon perennemente acceso».

Senza filtro

Bianchi sceglie di raccontare questa storia senza utilizzare alcun filtro, ricordando per esempio come avesse toccato casualmente il corpo senza vita di S. cercando meccanicamente al buio l’interruttore della luce o come alcuni vicini di casa avessero tagliato la corda con cui S. si era impiccato, come se il tempo trascorso avesse consentito alla mente di processare e realizzare cosa fosse successo e, solo dopo questa lunga e faticosa operazione, di affidare alla parola scritta, alla letteratura, questa storia.

«Se scrivo questo libro a frammenti è perché dispongo solo di quelli» scrive Bianchi e in effetti i vari «cocci» che compongono la vita di chi resta sembrano essere davvero l’unica possibilità per affrontare il bianco dell’assenza, la frattura di una memoria che scava in un terreno che potrà portare alla luce solo piccoli pezzi incapaci di offrire il quadro completo, troppe sono le incrinature che ne marchiano la superficie.

La vita di chi resta, suggerisce più volte Bianchi, si offre soprattutto ai “sopravvissuti”, questo il termine scientifico per indicare chi sopravvive al suicidio di una persona cara, a chi, come lui, si trova dentro questo tormento senza possibilità di incontrare gruppi di ascolto o terapie perché, banalmente, non ne esistono (almeno al tempo del suicidio di S.), ma anche perché pochi sono i libri che raccontano il dolore e le sensazioni di chi rimane, i modelli a cui poter fare affidamento in cerca di ascolto. Nell’istante della scomparsa si erge inoltre un barriera tra il sopravvissuto e il resto del mondo. Così i consigli, anche quelli delle persone amiche, suonano inutili (Bianchi per esempio non lascerà l’appartamento luogo del suicidio nonostante in molti glielo raccomandino: «Mi fanno tenerezza. Offrono consigli in una gara di cui ignorano le regole») perché si instilla nella mente da un lato una sorta di esclusività del lutto (nessuno, se non chi ci è dentro, può capire: «Il dolore risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci arriva» ha scritto Joan Didion in L’anno del pensiero magico) e, dall’altro, l’idea che il dolore resti l’unica spia tangibile dell’assenza, come se allontanandolo si allontanasse anche chi non c’è più («Non volevo che sparisse, insieme a lui, anche la sofferenza per lui»), incapaci di comprendere come questo dolore possa anche essere “donato” («La testardaggine del dolore. Il non capire che anche la sofferenza è qualcosa che puoi condividere. Quanto sono stato testardo io stesso per oltre due decenni?»).

Da scrittore Bianchi fa i conti con la sua storia interessato più alla verità che alla corrispondenza puntuale con il reale («Ho sempre pensato che si tratti di due concetti separati: scrivendo devi fare ordine, devi trasformare la vita in letteratura»), non inventando ovviamente, ma provando a dare ordine alle illogicità che regnano nel pensiero traumatico, a fornire un rifugio ai particolari che restano aggrappati alla mente e che troveranno, pian piano, il tempo per essere plasmati e per trasformare questo «inferno portatile» in letteratura. La vita di chi resta è quindi il tentativo di dare voce a un lutto che diventa ferita originaria da cui ricostruire un’esistenza intera, è la scrittura come forma di elaborazione delle esperienze e come tentativo di far fronte alla vita, è la ricerca di una lingua per esprimere l’inaccessibile senza ricorrere a frasi fatte o automatismi, ma è anche un ritorno alla luce, una riemersione in territori che si pensavano ormai perduti.

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