Le ragioni che spingono un musicista a creare un disco sono le più svariate, e altrettante sono quelle che lo spingono a non farlo. Quelle che hanno spinto me a non farlo finora, e a farlo finalmente, sono essenzialmente tre. La prima è che ho sempre pensato che tutto il bello della musica fosse già stato scritto. Per questo ho deciso di parlare con la musica attraverso il bello degli altri: musicando un film, una serie, uno spettacolo di teatro, dei brani per concertisti o per orchestre, producendo dischi di cantanti, accompagnando solisti, orchestrando; cucendo cioè rapporti tra mondi musicali diversi, ma sempre da dietro, al riparo dal pubblico e dai suoi giudizi.

La seconda è che non appartengo a nessuna élite musicale, a nessuna corrente, a nessuna scuola. Tante mi hanno istruito, stuzzicato, esaltato, mi hanno insegnato a esprimermi in nuove lingue, a coniare nuovi stilemi e a trovare soluzioni, risposte a dubbi esistenziali, ma alla lunga mi hanno soffocato: la musica classica, quella contemporanea, elettronica, quella concreta, etnica, quella microtonale, l’improvvisazione radicale, il pop, il rock, il jazz, il blues, la soul, il funk.

Per evitare di parlare solo una lingua, e inciampare nell’etichetta, ho sempre evitato di cantare il mio universo musicale, preferendo domarlo per un progetto.

Ma la ragione principale è che nutro da sempre il famigerato culto del dubbio, che si scontra frontalmente con il voler declamare inconfutabili verità musicali. La morte dell’ideale mi ha colto nel mezzo del cammino e lasciato con un’unica certezza: per dire delle cose bisogna esserne profondamente sicuri, se no meglio restare in silenzio (poi, a essere sinceri, il dubbio è comodo quando si ha paura di esporsi).

La genesi

Due anni fa, in pieno Covid, davanti alle tragedie nelle tragedie, davanti al disastro climatico, con i migranti “dimenticati” nel Mediterraneo, da questa parte dei nuovi muri, mi è venuto da vomitare musica, come per cancellare in contro-fase il molesto rumore vocale di Trump, di Johnson, di Farage, di Salvini. Ho scritto We Are Done in Three Movements, un mini concerto per pianoforte e altri strumenti, splendidamente interpretato in immagini da Matteo Manzini. In quell’esperimento incompleto, ho avuto la necessità di cercare delle voci di eroi da contrapporre a quel gruppo di squinternati.

Le ho trovate in Noam Chomsky, Jane Goodall e in Yanis Varoufakis, uno degli ultimi baluardi di una politica che mi sento ancora di sostenere. Ho quindi campionato alcune parole chiave, le ho divise in sillabe e usate come scudo, come strumento per ridicolizzare il blaterare insensato delle losche figure che ci rappresentavano in quel momento. Tornavano, come un ritornello, due sillabe di Varoufakis: «And Then».

In quel momento sospeso, la richiesta insistente del mio amico ed editore Gregoire Corman mi è sembrata, dopo anni, più ragionevole: scrivi il tuo disco. Le mie ragioni di negarmi sono sfumate, una per una, e, armato di poche certezze, ho deciso di impormi dei limiti creativi: quello dell’orchestra (un pianoforte, un Rhodes, un Wurlitzer, un Hammond, un quartetto d’archi, un clarinetto, un clarinetto basso, due flicorni, una batteria, l’elettronica) e quello dei temi di cui avevo finalmente voglia di parlare: la politica, il cambiamento climatico, i migranti, la fatica e lo splendore di amare. E, nonostante tutto, l’ottimismo con cui guardare al futuro.

Il futuro

Il futuro, quello che accadrà dopo questa epoca incerta e precaria: «And Then». È il futuro di Anaïs, la mia bambina di quattro anni a cui devo di cantare le gesta di questa umanità stremata. E di fianco al mio deus ex machina, Yanis Varoufakis, che aveva nel frattempo acconsentito con entusiasmo all’utilizzo della sua voce per un metatesto che servisse ai miei bisogni, avevo bisogno anche di voci che si intrecciassero con gli strumenti, con i suoni, di voci che raccontassero storie, che documentassero le emozioni umane. Ala.ni, Alessandro Baricco, Annie Burnell, Piers Faccini, Nate McBride, Nadeah, Victor Solf: le sette voci che si sono imbarcate con me in quest’anomala avventura, ognuna con il suo bagaglio, il suo universo, il suo passato e il suo, intimo, and then.

Così è nato And Then, 17 canzoni che parlano, in ordine: del potenziale umano, o dell’illusione di sistemare tutto e la resilienza di affidarsi alla persona amata. Di eterni incipit e di schiarirsi la voce prima di iniziare. Del delirio ossessivo del capitalismo. Dell’ottimismo che devo al padre che scelgo di essere, e che poi qualcosa è cambiato. Di accorate richieste di ascoltarci di più. Di clarinetti bassi frullati che risuonano per simpatia con le corde di un pianoforte volante. Del rapporto distorto con il denaro, sterco del diavolo, e dei 7/4 di Money. Del lockdown che avrei voluto vivere, quello del primo Novecento francese, e di quella sua attitudine irresistibilmente blasé e annoiata.

Di Novecento, e delle tragedie migratorie di oggi vista dal gommone, stipati nella stiva o al timone. Del Lego e della memoria cangiante, svelta e leggera dei bambini e della loro capacità di concentrazione totale e limitata nel tempo. Di libri sfogliati e di un tango sul filo. Di utopia, di sistema ben temperato e di hocket moderno. Dell’instabilità dell’umore in chiave grunge. Del suono ovattato degli scarponi nella neve. Dell’amore che non è nei dettagli, ma è nel fiato sospeso di un numero da circo. Di altre cose di cui non si piange. Della voce del nemico che, riavvolgendosi, forse non è mai esistita, «e poi».

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