Qualche anno fa, a Forte dei Marmi o a Roma ­– non ricordo con esattezza – il comico Valerio Lundini era immerso in uno dei suoi, ormai noti, momenti di contemplazione del vuoto. Capita, quando gli viene in mente qualcosa che non ha nulla a che vedere con la conversazione in corso. Io gli stavo parlando e, quando mi sono accorto che aveva smesso di ascoltarmi, e dopo avergli concesso il tempo di meditare accuratamente sul pensiero di passaggio, gli ho chiesto: «Che succede?»

«Pensavo a Rocco Tanica», mi ha risposto.

Benché Tanica non fosse nemmeno lontanamente parte della nostra conversazione, aveva un suo senso.

Ora, a distanza di anni da questo apparentemente trascurabile evento – che in effetti era rimasto taciturno in un angolo della mia mente – mi è capitato di vedere Lundini fare una brevissima apparizione nel documentario Vengo anch’io, diretto da Giorgio Verdelli e dedicato a Enzo Jannacci. La sua apparizione è rapidissima, e non aggiunge molto al già di per sé superficialissimo film, che di Enzo di fatto non parla mai pur parlandone di continuo in una carrellata un po’ superflua di personaggi che forse qualcosa da raccontare lo avrebbero pure avuto, se Verdelli avesse deciso di lasciarli giustamente divagare, però è significativa. Non tanto per quello che (non) dice, quanto perché chiude un cerchio. Un collegamento che si apre con Jannacci e termina con Lundini, passando per quel pensiero fugace: Rocco Tanica.

Scritti scelti male

C’è un racconto, il secondo che compare nell’antologia di Tanica Scritti scelti male, di recente ripubblicata da La nave di Teseo a quindici anni dalla sua prima edizione per Bompiani, nel quale gli alieni molestano un malcapitato in viale Abruzzi, a Milano. Lo rapiscono, gli infilano i tubicini nel naso, lo ignorano spavaldi mentre lui impreca, e infine si fanno fregare da una battuta e se ne vanno con la coda tra le gambe concedendosi solo un passaggio su via dei Mille. È l’essenza dell’umorismo surreale ed extraterrestre di Tanica, che si affaccia sulla città dipinta da Jannacci e le restituisce un po’ della sua assurdità perduta. Un filo sottile che li collega tra loro e arriva a Lundini, e che riapre uno scorcio di speranza sul futuro della letteratura umoristica italiana.

Passando per il senso per la teatralità di Paolo Rossi e la genialità unica e mai eguagliata di Maurizio Milani, Tanica compie una serie esperimenti letterari di altissimo livello, spacciati per piccole trovate comiche. Non ha alcuna paura: questa è sempre stata la sua forza. I suoi personaggi, spesso suoi alter ego immersi in un’atmosfera da sindrome di Asperger di fronte alla quale impallidirebbe Larry David, vivono vite brevi e micidiali.

Cani, capelli e limoni

In una serie di supposti articoli rifiutati da Rolling Stone, il personaggio Tanica – un gonzo atteggiato da “riccardone” e impegnato a inseguire dubbi miti musicali nei meandri del suo vasto egocentrismo – si trova faccia a faccia con situazioni sempre più surreali e con finali via via più drammatici costruiti eccezionalmente nello spazio della brevità del mezzo. «La lunghezza è nemica dell’umorismo», dice a ragion veduta Saverio Raimondo; spesso, però, si confonde la sintesi con la superficialità, e si finisce per cercare di costruire l’umorismo su una singola battuta, tralasciando l’impianto narrativo.

Tanica tratteggia mondi; solleva ponteggi complessi e particolareggiati sui quali apre finestre e parentesi lasciando al lettore la sensazione che ogni suo racconto, articolo, poesiola o pezzo breve, sia in realtà parte di qualcosa di vasto, smisurato, immensurabile.

Doug Kenney, fondatore nel 1969 della rivista National Lampoon, ideatore della “Comedy Hour” che avrebbe dato origine al successo di Saturday Night Live, e poi sceneggiatore di classici della comicità come Animal House e Caddyshack, aveva l’abitudine di appuntarsi stralci di pensieri su qualsiasi superficie avesse a disposizione: tovaglioli, fogli di recupero, pareti. Da quegli spunti sono nati alcuni dei brani e delle suggestioni oggi universalmente considerati classici della comicità surreale. Quando gli venne chiesto dove andasse a pescare così tante idee efficienti, così varie e così assurde, rispose: «Da nessuna parte. Sono sempre lì. Fanno il loro corso mentre io penso ad altro»; e aggiunse: «È come se nella mia testa ci fosse un altro mondo, che esiste indipendente dalla mia volontà. Qualche volta io apro una finestra, do un’occhiata a cosa sta succedendo e me lo segno. Pensate tutti che io sia un genio, sono solo un pazzo».

Qualcosa di simile al processo creativo descritto una volta da Jannacci: «Basta guardare: il surreale è nel reale. Io lo riporto come lo vedo».

Il Metodo Tanica

Non può in nessun modo trattarsi solo di un meccanismo di creazione comica, di una semplice ricerca della battuta o del twist umoristico. È la costruzione, l’abbellimento e l’accudimento di una realtà al di fuori della realtà. Qualcosa di molto simile alla scrittura di un romanzo; un’opera mondo che per la maggior parte è destinata a rimanere al di là dalla pagina a fare da, preziosissima, suggestione di contorno. Senza questo universo invisibile, l’umorismo perderebbe il pilastro di credibilità che lo rende irresistibile. Una Milano nella quale è normale che gli alieni si facciano un giro in circonvallazione, che i cani abbiano i capelli e che si possa parlare con i limoni. Tangibile, concreta, presente come tutti i riferimenti letterari, musicali e artistici che punteggiano i racconti di Tanica. Non basta assumere che Dante abbia dettato svogliatamente la Commedia in prosa raffazzonata a un assistente sorseggiando tisana alla malva mentre le patate rosolavano nel forno, per ottenere l’effetto comico. Occorre credere che le cose siano andate così, al punto da non poter più leggere una terzina senza immaginarne la versione originale, che dal momento in cui ci viene svelata non può più smettere di esistere. «Cogliere la verità oltre la realtà», per rubare le parole al personaggio di Fox Maulder, interpretato da David Duchovny – altra insospettabile e raffinatissima penna umoristica – nel telefilm X-Files.

Tanica lo sa. Tanica sa tutto. Ha accesso alle finestre di Kenney e al reale che alimentava il surreale di Jannacci e ne fa un uso squisitamente esatto.

Il panorama

Da qualche tempo a questa parte la letteratura umoristica italiana, che non è semplicemente una trasposizione su carta della comicità dal vivo, televisiva o cinematografica come ci hanno abituato le – pur esemplari, in certi casi – edizioni Kowalski negli anni Novanta del Novecento, sta vivendo tempi buoni, se non proprio esaltanti: oltre a un Tanica in stato di grazia che ricerca, sperimenta, traffica, a Lundini, a Milani che cura instancabilmente rubriche per i giornali consegnando i pezzi scritti a mano, e a Raimondo che non manca un colpo, l’orizzonte è affollato di firme degne a loro volta di menzione: Chiara Galeazzi, Alessandro Gori, Giada Biaggi, per citarne qualcuna.

La sensazione è che, dopo un periodo di ristagno, si sia tornati sul solco della ricerca letteraria, abbandonando la strada, apparentemente più semplice ma lastricata di insidie, della battuta facile, per ricostruire un panorama umoristico complesso; rilanciarsi nell’esplorazione di quel mondo assurdo e spesso incognito che vive dietro la pagina.

Scritti scelti male, in questo senso, rappresenta un punto di svolta: l’affermazione di una letteratura umoristica vitale e per niente scontata, che non ha alcuna necessità di un altoparlante cinematografico, teatrale o televisivo per essere compresa e apprezzata.

Gli scritti di Tanica sono materiale di studio, si appoggiano a una tradizione da preservare e forniscono una spinta vitale a chi vuole proseguire. «Pensavo a Rocco Tanica», quindi, non è mai un’affermazione banale. Equivale a pensare a un universo umoristico che lui, e quelli come lui, non si stancano mai di osservare.

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