La mente dell’animazione si chiama Monica: è molto tatuata, ha un taglio di capelli militare e una deformazione professionale che la porta a condire ogni gesto con un eccesso di entusiasmo. Parla con un accento indefinibile che mescola sardo, lombardo, pugliese e una specie di italiano per stranieri che la farebbe sembrare Gadda, se non dicesse solo frasi motivazionali e battute che nei villaggi turistici regnano immutate dagli anni Novanta.

Lei, Monica, giustifica il pastiche linguistico evocando i 25 anni di esperienza in tutto il mondo, lasciando intendere di aver avuto una vita alla Shantaram, per quanto abbia per lo più girovagato per i villaggi vacanze italiani, con il tocco di esotismo di qualche stagione invernale a Capo Verde. Nel tempo ha scalato l’impervia gerarchia dell’entertainment, e ora ha una sua mini-impresa che gestisce, tra le altre cose, l’animazione di questo Family Hotel sulle Dolomiti.
A maggio ha fatto un tour nelle scuole della provincia di Reggio Emilia per raccogliere un branco di adolescenti da spedire nelle varie strutture che gestisce.
«Preferite passare l’estate qui a sparare alle zanzare o venire sulle Dolomiti e racimolare due spiccioli?».
Quelli hanno risposto con entusiasmo adolescenziale al suo entusiasmo adolescenziale, e ora si trovano in un posto spettacolare, che purtroppo vedranno solo dalla finestra, dato che non sono previsti giorni liberi.

«Qual è lo scopo dell’animazione di un Family Hotel?», chiede Monica nella prima riunione dello staff, aggirandosi tra i coscritti come il sergente maggiore Hartman. «Far divertire i bambini!»; «Sorridere ed essere sempre positivi!»; «La serenità del nucleo familiare!», rispondono le reclute.
«Il nucleo familiare, Federica? Cosa sei, l’Istat?», risponde Monica con la risata con cui sottolinea ogni battuta. «L’unico nostro scopo è impedire che i figli passino del tempo con i genitori. Noi siamo una muraglia tra genitori e figli, l’ultimo baluardo della difesa dei genitori dalla loro prole, e lotteremo con tutte le forze per impedire che i bambini stiano con chi li ha procreati: così quelli sono contenti, si rilassano e l’anno prossimo tornano. Se un bimbo di due anni piange disperato cosa fai, Federica?».
«Chiamo la mamma?».
«MAI! Aspetti che smetta e quando la mamma torna a prenderlo gli dici che è stato un angelo, mai stato così bene in vita sua, che meraviglia quel frugoletto. Chiaro? Le mamme li danno a noi perché vogliono scordarsene. La vacanza è prima di tutto una vacanza dai figli. Family Hotel significa questo: alla family ci pensa l’hotel».
«E per i bimbi più grandi?», chiede uno che è stato destinato all’animazione 5-10.
«Stancateli. Scordatevi giochi istruttivi, di intelligenza, didattici. È agosto, Santoddio. È vero che nella vita reale quei bambini fanno corsi di pianoforte, inglese, danza e cubo di Rubik, costantemente affiancati da un mental coach, ma è solo un modo per compensare le mancanze dei genitori. Quindi l’unica parola d’ordine è: sudore. Devono correre, saltare, urlare, fare lotte con i cuscini e sguazzare in piscina, costantemente bombardati da una musica altissima e ripetitiva, tipo Techno, ma per bambini. La sera devono essere cadaveri ambulanti: li restituite al papà che se li mette in spalla e li scarica direttamente a sbavare sul cuscino. Domande?»

L’arrivo

Le famiglie arrivano la domenica mattina alla spicciolata, e vagano per la hall dell’albergo in attesa che alle 15 vengano consegnate le camere. Questo periodo di sospensione è un problema soprattutto per chi, come me, ha voluto fare la partenza intelligente, arrivando prestissimo, distrutto e con i figli che, riposati dal lungo sonno in macchina, chiedono costantemente di essere intrattenuti, non avendo alcun talento per farlo da soli. Man mano che arrivano altri ospiti le famiglie cominciano ad annusarsi, cercando di capire se il figlio della famiglia x ha l’età giusta per giocare con il proprio, in modo che quest’ultimo allenti per un po’ la presa dei suoi artigli aggrappati agli ultimi brandelli della tolleranza parentale. Per i più piccoli si ricorre alla chiacchiera da sgambatoio per cani – «Maschio o femmina? Quanto ha? Mangia?» – omettendo solo la domanda sulla razza perché da una parte è evidente che il contesto è rigorosamente monoetnico, dall’altra la risposta più sincera sarebbe un liberatorio «È un bastardo!».
Tra i neonati una menzione speciale merita una bambina di sei mesi, impacchettata come un confetto rosa, che i genitori ciociari hanno chiamato Mazekeen, dal nome di una demonia della serie Lucifer, che loro pronunciano mezeghin e che non si sa come sono riusciti a far battezzare.

Il maestro di cerimonie, oltre all’istrionica Monica, è il direttore dell’albergo, un omino pelato dall’aria sadica che scruta tutti suggendo avidamente le penne della reception. È estremamente cortese, ma quasi mai alle sue risposte gentili fa seguire delle azioni. Continua a guardarti e sorridere; e suggere. Gli altri concierge sono ladinofoni circonfusi da un alone di disprezzo per gli italiani in generale e per i clienti del loro albergo in particolare.

Pigi il Cattivone

Il volto della diciassettenne all’entrata del Nido Club (0-4) ogni volta che si avvicina un genitore con in braccio un bimbo piccolo si contrae in un’espressione di terrificato sgomento, e sicuramente si ripete che l’anno prossimo le converrà prendersi un paio di materie a settembre, così sarà costretta a passare l’estate a studiare, invece di farsi venire le smanie di indipendenza. L’unica volta che in albergo si vede un volto più angosciato del suo è quando la nonna di Daniel, un anno e mezzo di bambino che urla anche solo per manifestare il suo apprezzamento per il pranzo, le consegna il pupo dicendo: «Tenetelo una mezz’ora, per favore. Ho paura che se lo lascio con mia figlia altri cinque minuti potrebbe ammazzarlo».

I ragazzi del miniclub, invece, sono quasi tutti maschi (la divisione di Monica è stata spiccia e patriarcale: femmine con i bimbi piccoli e maschi con quelli più grandi) e sembrano presi benissimo. Essendo più o meno diciottenni, e dunque, al contrario delle colleghe femmine, non ancora cerebralmente sviluppati, per loro correre, sudare e fare a cuscinate con un tappeto sonoro di baby-Techno è un lavoro da sogno.

Il piccolo Piergiorgio, in arte Pigi il Cattivone, si è guadagnato già il martedì questo soprannome condiviso da tutto il miniclub (animatori inclusi) per l’atteggiamento ipercompetitivo e per il suo essere un Patrick Bateman in erba: settenne, milanese e biondissimo, quando non è impegnato a bullizzare la madre si dedica alla sistematica prevaricazione di tutti gli altri.
Patrizia, sua mamma, anche lei bella e biondissima, tende a scusarlo delle sue malefatte con sorrisi tra l’imbarazzato e l’orgoglioso, e per il resto tende a esibire una certa reticenza sui motivi dell’assenza del marito (che nessuno d’altronde le chiede).
Ha subito stretto amicizia con l’altra donna che è qui da sola, anche lei titolare di un bimbo della stessa età di Pigi il Cattivone, Tommaso («di formazione steineriana», vi dirà, con un malcelato fremito di piacere di fronte alla vostra espressione sbigottita) il cui spirito gregario lo ha fatto subito diventare il braccio destro di Pigi.
Al contrario della mamma di Pigi, è estremamente ciarliera, e non perderà occasione per spiegarvi con dovizia di dettagli che il marito è rimasto a lavorare, e che lei è contenta così, dal momento che «il valore di un uomo si misura dal suo lavoro», un commento che ogni volta getta un’ombra sul volto della mamma di Pigi. Le due si sono fatte mettere al tavolo insieme, e hanno trovato questo buon ménage vacanziero per cui la mamma di Tommaso parlaparlaparla, e quella di Pigi beve e sospira.

A parte uno psicologo con gli occhialini tondi che passa il tempo a pontificare e a spiegare alla moglie come allevare i figli (gli aspetti pratici della cui cura delega completamente a lei, tenendo per sé solo la riflessione teorica: «Stai sbagliando approccio: questo è il momento della semina, e invece tu vorresti subito raccogliere», le dice con tono paterno distogliendo per un istante lo sguardo dall’ultimo Recalcati), gli altri genitori sono di classe media, mediamente noiosi, mediamente compresi nel loro ruolo di genitori, mediamente felici di sbolognare i figli per buona parte della giornata e mediamente, quasi in maniera naturale, irriflessa, di destra.
Nessuno, d’altronde, è di destra quanto il direttore succhia-penne, che ogni mattina espone con aria tronfia il bouquet di giornali offerti alla clientela, che spaziano da giornali di destra a giornali molto di destra a giornali prossimi all’apologia di fascismo.
Una volta provo anche a chiedergli conto di quella scelta, e lui, senza smettere un attimo di suggere biro, ghigna «ma quelli sono giornali di centro», e io lo immagino nel suo gabbiotto a trangugiarsi penne a sfera accarezzando la sua copia del Mein Kampf.

L’omertà del miniclub

La sera del venerdì siamo chiamati a partecipare a uno psicodramma collettivo: i bambini del miniclub 5-10 sono riuniti in cerchio, alla presenza dei genitori, per trovare il responsabile di un grave atto di bullismo.
Io vorrei intervenire per dire che è stato sicuramente Pigi il Cattivone e arrivare alla cena tirolese prima dell’assalto al buffet degli antipasti, ma purtroppo viene fuori che lui è la vittima, come conferma il fatto che la sua capigliatura ha assunto forma e consistenza di un mocho Vileda. Qualcuno gli ha rovesciato sui capelli un intero barattolo di pregiato miele di montagna, vanto gastronomico locale.
Nel miniclub tuttavia regna l’omertà e la seduta si protrae a lungo. Non bastano gli appelli accorati all’autodenuncia, l’intervento di Monica a garantire l’impunità del reo a patto che si ristabilisca la verità, e nemmeno l’inverosimile minaccia del direttore che dice che chiamerà la Polizei (sic) se non viene fuori il colpevole. Dato che lo psicodramma non ha prodotto il risultato per cui era stato inscenato, per quella sera viene annullata la baby dance, che come punizione esemplare e indiscriminata sembra più che accettabile.
La serata trascorre in un’atmosfera un po’ lugubre, resa ancor più pesante dalla terribile sfuriata che il direttore ha fatto a Monica a seguito dell’incidente, tenutasi nell’ufficio del direttore, che pare vantare un’acustica palladiana capace di riverberare anche il più tenue sussurro in tutto il piano terra dell’albergo.
La strapazzata dura almeno dieci minuti, durante i quali Monica non apre bocca, e si conclude con un secco «e ora fuori di qui, invertita!» che fa accapponare la pelle. Nel giro di pochi secondi tutti gli ospiti sentono un improvviso bisogno di ritirarsi in camera.

Ho ancora il suono incongruo di quell’invertita nelle orecchie quando trovo di fronte alla porta della nostra camera mio figlio maggiore con la coda tra le gambe e lo sguardo da cerbiatto. «Papà, io lo so chi è stato. Dovevo dirlo?».
Sono spiazzato, e come spesso mi capita non so bene quale sia la retta via pedagogica: preferisco un figlio che tace di fronte a un atto di bullismo o un figlio delatore?

Per fortuna continua lui, che ha fretta di togliersi il peso dalla coscienza: «Sono stato io. Pigi era tutto il giorno che prendeva in giro Tommaso. Stava esagerando».
«Tommaso?».
«Lo steineriano» mi dice con nonchalance. «Pigi continuava a dire cose brutte su suo padre».
«Non ci si deve fare giustizia da soli» improvviso. «Comunque lo capisco, che non volevi autodenunciarti davanti a tutti. Vado io a parlare con Monica».
Quando scendo al bar è rimasta solo Monica, seduta a un tavolo da sola con un Negroni in mano.
«Scusa Monica».
«Oh, ciao caro» (chiama tutti caro, per economia).
«Senti, per quello che è successo al miniclub…».
«Non dirmi nulla».
«No, è che…».
«È tutto risolto. Quella di tuo figlio è la sesta confessione della serata».
«Ma…».

«Tutto risolto, ti dico. Buonanotte», chiude, definitiva.
Io mi allontano perplesso.
«Hanno fatto bene» sento dire.
Mi volto, ma Monica è ancora china sul suo Negroni e non dà cenni di rivendicare la maternità dell’esternazione.

Bollino nero

Il sabato sera è tutto un pianificare di ritorni intelligenti: domani è la prima domenica d’agosto, bollino nero con teschio. Tra i padri di famiglia, detentori unici del volante e della tabella di marcia, si tiene un feroce gioco al ribasso: noi partiamo alle sei, noi alle cinque, noi partiamo già stasera, noi aspettiamo qui fino a domani notte.
Io alla fine mi lascio prendere dall’ansia e dalla competizione, e alle tre di notte siamo già pronti per partire. Mia moglie e i miei figli hanno gli occhi carichi di cispe e rancore. Osservo lo sguardo torvo di figlio maggiore e mi dico che essere pelato tutto sommato è una fortuna. Una volta stipati tutti quanti in macchina devo risalire dal garage per cambiare il pannolino dell’ultimogenita, che ha per le deiezioni un suo personale tempismo non privo di ironia.
Di fronte alla reception vuota mi casca l’occhio sul pacco dei quotidiani dell’indomani. La vista di quei giornali, unita all’ora antelucana e all’idea che non avrò più il muro delle animatrici tra me e i miei figli, mi fa montare la rabbia. Mi martella ancora in testa il suono di quell’invertita sibilato dal direttore. Ripenso al miele di mio figlio, al coraggio che gli è servito per decidere di mettersi dalla parte del torto. Guardo il pannolino che devo cambiare. Guardo le penne del direttore che spuntano dal bancone.
«Oh, ma quanto ci metti? Hai finito?», mi chiede mia moglie appena risalita dal garage.
«Un minuto e arrivo» rispondo.

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