Un selvaggio pudore: come preservarlo scrivendo, quando si presume molto di sé e si pensa che le proprie fantasie siano oggettivamente più interessanti della media circostante, e che a loro volta le fantasie, facendo salvo l’indubbio talento d’invenzione, derivino dai propri pensieri e dalle proprie esperienze? Bisogna mettere in atto una serie cospicua di trasposizioni, di corrispondenze occulte, bisogna crearsi una corazza di pura letteratura. Bisogna credere che siano i racconti a generare la realtà e non viceversa; che la letteratura sia un territorio fuori dal tempo e dallo spazio, come una nave da cui una volta saliti non si può più scendere. I personaggi non si chiameranno Mario o Loredana ma Mormy o Elisewin, compiranno azioni che non derivano dall’odiato realismo o dallo psicologismo deteriore, ma da altra letteratura dotata di una precisione tutta interna, che sia Perec o Conrad, o la parabola orientale. Questo ha fatto Baricco fin dal suo primo romanzo, Castelli di rabbia. Poi sono venuti il successo, i riccioletti, lo storytelling, la camicia bianca con le maniche rimboccate: fighettismo, per chi non lo sopportava, impressione, per chi era interessato, che di Baricco ce ne fossero due, uno da prendere sul serio, il saggista modernissimo e spesso controcorrente, il pedagogo, il divulgatore con invidiabile cursus affabulatorio, e poi l’altro, il romanziere, da considerare con un po’ di sufficienza se non col sospetto di qualche astuzia di troppo per andare incontro alle debolezze di un pubblico entusiasta e semicolto.

Sicché quando ho letto che il romanzo più recente, Abel, Feltrinelli, era un “western metafisico” mi sono detto écchela là, il solito Baricco; anzi, dopo la quasi autobiografia di Emmaus, un Baricco di ritorno. Eppure, leggendo, c’era qualcosa che mi sfuggiva: qualcosa di troppo intimo e vicino che non riuscivo ad afferrare. Non che mancassero alcuni manierismi baricchiani (frasi brevi e paratattiche, dialoghi laconici e astratti, esotismo, abbassamenti stilistici per dribblare il lirismo), e anche nell’avvertenza iniziale risuonava una frase (“perché la libertà più assoluta è il privilegio, la condizione e il destino di qualsiasi scrivere letterario”) che mi suscitava dissenso, ma dài, a sessantacinque anni non ha ancora capito quanto poco siamo liberi quando scriviamo? Però la corazza stavolta era troppo, come dire, esposta, che era successo? Un contenitore di genere perfino troppo ingenuo, il western classico coi suoi pistoleri, la rapina alla banca, la stella dello sceriffo, il saloon e i ladri di cavalli e le prostitute dal cuore d’oro. Non mancava niente: c’era un Maestro che però era sincreticamente aristotelico, e humiano, e junghiano, e zen. Le frasi sapienziali cadevano giuste, fraterne: “Siamo già stati dove non siamo mai stati, e anzi, a dirla tutta, veniamo da lì”; “il caso esiste, sì, ma di rado”. L’Ovest del western era il nostro Occidente, i Nootka forse sono i migranti che conosciamo; i “rari umani” che capitano nella sperduta fattoria paterna, vissuti “inanellando una serie impressionante di mete parziali, frutto di progetti insignificanti, non di rado codardi”, non siamo forse noi? La donna amata dal protagonista (che baricchianamente si chiama Hallelujah), la sola che abbia intravisto il dolore sotto la maschera della disinvoltura e della prontezza, ha vissuto coi Dakota ma è figlia adottiva di una specie di strizzacervelli.

La giocosità dell’infanzia

A una cinquantina di pagine dalla fine ho avuto la rivelazione decisiva: Abel è stato sparato e si trova in fin di vita; i nativi lo sottopongono a una prova che è una vera e propria iniziazione sciamanica. Sopravvive ma ha imparato chi è, è morto per rinascere. La vera storia del libro è il verificarsi in sé della tradizione esoterica, costeggiando la psiche con l’escamotage di chiamarla “anima”. “Io vorrei essere come mio padre” si muta in “io vorrei essere come quel ragazzino”, che è un bel modo per uscire dall’Edipo e andare verso il mondo. Il nodo del plot, salvare la propria madre dal patibolo con l’aiuto di tutti i fratelli, suggerisce una riflessione verticale: “Forse da bambini non si fa altro che rinunciare alla propria vita per salvare quella della propria madre” (che, se non sbaglio, presuppone il reciproco, solo uccidendo la madre si può riscattare la propria vita). Il teorema vuoto della letteratura si riempie di esperienza; il tempo curvo è quello di un mondo interno in cui vigono altre norme di decenza e di giustizia, dove l’incesto per esempio non è che un gesto di accoglienza. Baricco finalmente crede nell’ideale dell’io che prima aveva proiettato un po’ velleitariamente nelle proprie fantasie, ci crede perché dietro la letteratura ha trovato un’antropologia e una guida all’universo onirico. Avendo finalmente raggiunto sé stesso, il contenitore fantastico si assottiglia e può permettersi la giocosità dell’infanzia.

Il tessuto dell’involucro di genere si lacera, l’esotismo si è trasformato in una vera alternativa culturale. Vivere da pistoleri significa avere sempre, come compagna, la paura di morire: “A cosa serve allora questo mio stare la schiena diritta, nello sguardo degli uomini, di fronte a qualsiasi pistola, se poi tanto la paura si raccoglie nel cavo di pietra delle mie notti?”. Il selvaggio pudore si scioglie in sobrietà, in eleganza nel fare buon uso della malattia; l’autobiografia respinta riaffiora col suo carico di commozione. Senza perdere leggerezza, il western metafisico è una facile allegoria della scoperta del corpo malato e delle sorprese che la corporeità può riservare: “la mia ferita… è la particella più intima e vera di me”; “il dubbio di avere un’anima troppo piccola per tutto quello splendore”. L’ultima frase potrebbe essere pronunciata da un mistico vero, altro che la performance che ha reso Abel una leggenda vivente (sparare con due pistole centrando contemporaneamente due bersagli diversi), colpo magistrale tramandato come “il Mistico”. La forma ha trovato la verità.

“Mi avevano dato per morto, e adesso c’era una specie di radura dove si erano dati appuntamento solo cuori buoni”; “vediamo allora cos’è questo morire”. Forse qui vibra un’eco leopardiana (“che sia questo morir, questo supremo/ scolorar del sembiante”); i riferimenti letterari ora bucano la letteratura. Nel finale, la lunga descrizione della sella del vecchio è una fusione tra lo scudo di Achille e l’Aleph di Borges; la descrizione sta al posto di un racconto che il protagonista non riesce a fare, quello di come è morto il padre; ciò che prima era censura è diventato consapevolezza delle parole che uno può scrivere oppure no (nessuna libertà, quindi). “Lavate via il dolore, ogni paura e quel che resta dei miei errori; è tempo di essere leggeri, adesso, e puliti”; Abel dopo il rito sciamanico decide che non sparerà più, l’ultimo proiettile sarà per mirare al cappio con cui la madre sta per essere impiccata. E non sbaglia (“sparo ancora meglio, da quando non sparo più”). Questo è il miglior romanzo di Baricco perché è un libro-amuleto, non un libro per fare bella figura.

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