Nel mondo occidentale, maggiori opportunità di benessere e longevità hanno creato un feroce diniego della mortalità. L’emergenza Covid-19 ci ha così colti alla sprovvista, senza gli strumenti di base per affrontare il trauma
- In America si chiama “Death acceptance” ed è la pratica che può far recuperare la consapevolezza del fenomeno più naturale che ci sia: la fine.
- Da qualche anno è argomento di libri di narrativa e saggi. L’ultimo è quello di Caitlin Doughty, “Il mio gatto mi mangerà gli occhi?” In Italia, invece, questo filone narrativo ci ha messo un decennio ad arrivare sugli scaffali.
- Ma il tema della morte è un tema di libertà, vogliamo davvero continuare a privarci di un dialogo su tutto questo? Parafrasando Doughty: lavorare con i morti significa, in ultima istanza, lavorare per i vivi.
Ha lunghi capelli corvini, grandi occhi azzurri e, quando ti guarda, non manca mai di dire: «Ricordati che morirai». Caitlin Doughty, classe 1984, è una necrofora laureata in Storia medievale e scienze mortuarie. Nata e cresciuta alle Hawaii, attualmente dirige la sua Funeral Home a Los Angeles, mentre divulga messaggi di Death Acceptance attraverso l’attività di scrittrice e il suo canale Youtube. Vorrei dire che sarò imparziale, ma il mio giudizio sui suoi libri è viziato dal fatto che averli trovati è stato come incontrare un’amica immaginaria.
«La curiosità sulla morte è normale. Ma crescendo, le persone interiorizzano l’idea che interrogarsi sulla morte sia “morboso” o “strano”»
In Italia l’avevamo già conosciuta con il suo primo libro Fumo negli occhi e altre avventure dal crematorio (Carbonio editore 2018, traduzione di Olimpia Ellero) dove Doughty esordiva nel mondo della non-fiction con le sue esperienze di apprendista necrofora e un peculiare senso dell’umorismo. A settembre 2020 la ritroviamo con la sua ultima pubblicazione: Il mio gatto mi mangerà gli occhi? (Il Saggiatore 2020, traduzione di Alessandra Castellazzi). Per i più curiosi, la risposta a questa domanda è no, almeno non prima di qualche giorno.
«Nella nostra civiltà le persone sono in gran parte analfabete riguardo la morte, il che le rende ancora più spaventate»
Il mio gatto mi mangerà gli occhi? è una raccolta di domande poste da bambini, con risposte adatte a tutti. Ci si potrà chiedere, ma perché pubblicare un libro così? Perché divulgare questo tipo di contenuti? Non si tratta di una bizzarria morbosa, si chiama Death Education ed è la pratica che può far recuperare la consapevolezza del fenomeno più naturale che ci sia: la fine.
Un primo soccorso del lutto, un percorso educativo ed informativo volto ad aiutarci nel comprendere morte e perdita. Nel mondo occidentale, maggiori opportunità di benessere, longevità, cura di salute e forma fisica hanno da un lato migliorato le condizioni di ampie fette della popolazione, dall’altro creato un feroce diniego della mortalità. L’emergenza Covid-19 ci ha così colti alla sprovvista, proiettati in una situazione atipica, senza gli strumenti di base per affrontare e condividere il trauma.
Nel suo articolo “Covid-19, il tabù della morte” - online su Doppiozero dal 20 ottobre 2020 - il filosofo e tanatologo Davide Sisto evidenzia «la totale indifferenza mostrata in questi mesi dalle istituzioni pubbliche nei confronti dei percorsi di Death Education, assolutamente necessari dopo un lockdown primaverile contraddistinto dalla quotidiana sensazione di essere in pericolo di vita».
Se dai canali istituzionali non sono dunque attesi grandi passi, nelle pagine di libri come quello di Doughty possiamo schermarci dietro alle domande dei bambini, al fine di trovare risposte che forse servono a noi.
«La morte è scienza e storia, arte e letteratura. Crea ponti tra culture e unisce l’umanità intera».
C’è una pubblicazione di Doughty che non è ancora disponibile sul mercato italiano, ed è un peccato. Si intitola From here to eternity e fa il giro intorno agli usi funerari del mondo, passando anche dall’Italia, per la precisione dal Cimitero delle Fontanelle.
L’Italia è un paese vecchio sotto molti punti di vista, dalla storia millenaria all’età media della popolazione. È anche un paese con un rapporto tradizionalmente stretto sia con la morte che con i resti umani. Il cimitero delle Fontanelle – uno dei luoghi più interessanti di Napoli – è letteralmente una grande grotta traboccante di ossa e teschi umani. Abbiamo, sparsi per il paese, più pezzi di sante e santi esposti ai fedeli che corpi opportunamente inumati, senza contare un discreto numero di cripte dei cappuccini tappezzate da scheletri e corpi mummificati. Stupisce dunque la tenacia con cui, nel dibattito pubblico, fuggiamo l’argomento. Eppure è ciò che accade, a coronamento di un percorso forse iniziato con il dopo guerra, esploso con il boom economico e solidificatosi negli Ottanta e Novanta, quando la promessa era che le luci e i colori non si sarebbero mai spenti.
«Non possiamo rendere la morte divertente, ma il modo in cui la conosciamo sì»
Che cosa succede al corpo di un astronauta nello spazio? Il mio criceto può essere sepolto con me? Posso usare le ossa umane come gioielli? Ci stanno tutti in una bara, anche chi è molto alto? Possiamo fare un funerale vichingo per nonna? Queste sono solo alcune delle domande contenute nel libro di Doughty, e quel che spicca nelle risposte è quanto siano spumeggianti. Trascinano e strappano risate liberatorie. L’ironia non è però l’unica cifra a disposizione per narrare la fine. Come per tutto, ci sono molti modi.
Negli ultimi anni si sono aperte alcune brecce che mi sembra abbiano la forma dell’opportunità. Tra le pubblicazioni estere spicca il particolarissimo La via del bosco di Long Litt Woon (Iperborea 2019, traduzione di Alessandro Storti), una sorta di diario del lutto dell’autrice che, rimasta vedova, affronta la perdita aiutata dalla passione per la micologia. Cambiare l’acqua ai fiori è invece il bestseller francese di Valérie Perrin (e/o 2019, traduzione di Alberto Bracci Testasecca). Da mesi tra i primi posti nelle classifiche di vendita italiane, il romanzo ha per protagonista una guardiana di cimitero e la sua vita costellata di perdite importanti e altrettanto importanti incontri.
E in Italia che cosa si fa?
In Italia abbiamo avuto la strada aperta da Laura Liberale, con il suo avanguardista Tanatoparty (Meridiano Zero 2009), ma ci è voluto quasi un decennio perché la morte tornasse ad essere affrontata in modo così diretto. Giorgia Tribuiani con il romanzo Guasti (Voland 2018) si è occupata di plastinazione e lutto elaborato sul suolo pubblico di un museo. Davide Sisto, nel campo invece della saggistica, parla di morte e vita digitale nelle sue pubblicazioni La morte si fa social e Ricordati di me (Bollati Boringhieri 2018 e 2020). Ma anche Ivan Cienzi, da anni curatore del sito Bizzarro Bazaar, nel suo libro fotografico Mors Pretiosa. Ossari religiosi italiani tratta il macabro guidandoci in tre celebri cripte dei cappuccini.
Fuori dai libri, ma sempre dentro la conoscenza abbiamo Camposanto, il podcast di chi ama i cimiteri, a cura di Giulia Depentor; i festival a tema “Il Rumore del lutto” di Parma e “Passi e Trapassi” di Belluno; l’unicità del “Master in death studies & the end of life” presso l’università di Padova. Un mondo che è una nicchia preziosa e, a dispetto dei timori, pieno di vita.
«Ma è la realtà, e la realtà non cambia solo perché non ci piace»
Caitlin Doughty ci indica che le paure si affrontano informandosi, e che indagare la morte non riguarda mai solo la morte. Parlare di morte è anche parlare di ecosostenibilità e gestione degli spazi, questioni di genere, divari di classe, scelta della propria identità, rispetto delle volontà contingenti e postume. Per spiegarci meglio: siamo sicuri che una sepoltura tradizionale non sia gravemente impattante per l’ambiente? Come può una persona transessuale far rispettare la propria identità anche da dopo morta? I costi esorbitanti dei funerali sono equi? In che modo essere poveri danneggia noi e le nostre famiglie anche nella delicata fase delle esequie? Il tema della morte è un tema di libertà, vogliamo davvero continuare a privarci di un dialogo su tutto questo? Parafrasando Doughty: lavorare con i morti significa, in ultima istanza, lavorare per i vivi.
Nei giorni in cui questo articolo viene pensato si avvicina la festività dei Morti. È fine ottobre e mi è capitato di salire sulla collina, fino al cimitero dove riposano alcuni famigliari stretti. A casa mia abbiamo un approccio piuttosto secolare alle cose dell’esistenza, ma riteniamo buona creanza pulire le tombe dei cari una volta l’anno. Gettiamo acqua sul marmo, grattiamo le superfici con una spugnetta abrasiva, puliamo i vasi e portiamo fiori freschi. Quando abbiamo finito raccogliamo i sacchi di foglie cadute e ci fermiamo davanti alle foto in bianco e nero. Momenti rubati al tempo che, per colpo di fortuna o suggestione, sembrano aver colto la precisa personalità di ognuno. Allora siamo pronte a salutare con una piccola stretta al petto difficile da spiegare. Quello che io credo è che non c’è una formula per non soffrire, ma abbiamo il diritto all’opportunità di conoscerci anche in questo ambito. Di capire cosa pensiamo, cosa temiamo e cosa desideriamo. Di ammansire le paure con la conoscenza e trovare la nostra pace in ogni dimensione possibile.
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