«Quando la storia chiama, io rispondo»; nel contesto del libro questa frase si riferisce alla capacità di depistare le indagini e la “storia” è la vicenda di cui si sta parlando, ma non sarebbe difficile interpretarla in senso più generale e pensare alla Storia con la maiuscola – tutto si può dire di Giuseppe Genna tranne che non sia sempre in sintonia con l’aria del tempo e coi suoi battiti.
Il fatto di cronaca di cui si parla in Yara (Bompiani) risale a più di dieci anni fa, ma alcuni aforismi del testo risentono del nostro 2023. «Non esiste droga migliore della realtà»; «la televisione sta finendo ma resiste esattamente qui, nei dintorni della morte»; «trascendiamo il maschio e la femmina: avremo pace»; «pretendono che la rivoluzione si faccia da seduti: in questo hanno ragione, anticipano il tempo a venire».
L’utopia di chi conduce le indagini, mentre si sta cercando Ignoto 1, sarebbe applicare l’intelligenza artificiale a una banca genetica universale, schedare chiunque; il “caso Yara” è l’annuncio, il ponte per quel che accadrà. Il tempo della narrativa di Genna è il presente in mutazione, o il passato solo in quanto illumina il futuro; lo spettacolo dilaga, qualcosa di terribile sta per accadere, la Grande Deformazione è in atto e cercare di sottrarsene costerebbe parecchi punti di Pil.

Risonanza mediatica

Il libro (come anticipa il sottotitolo, Il true crime) non racconta la vita della tredicenne Yara Gambirasio, rapita nel 2010 e ritrovata cadavere qualche mese dopo, né racconta la vita del suo (probabile) assassino. Di lei, della sua infanzia e pre-adolescenza, sappiamo solo qualche scarno aneddoto edificante raccontato dai genitori; del trantran quotidiano e coniugale di Massimo Bossetti si parla per un attimo a proposito delle ricerche porno su Google e della ammissione che qualche video lo guardava con la moglie: «È strana la fedeltà, l’infedeltà, la passione, la lite ciclica e la sfumatura dell’eros… è strano il segreto di famiglia, è strana la famiglia» – così due secoli di romanzo tradizionale sfumano nella vaghezza.
La ragazzina e il suo uccisore sono inchiodati all’eterno presente del fattaccio; quel che il libro racconta è l’enorme risonanza mediatica del caso, l’isteria dei media, l’oscena fame popolare di notizie pruriginose – è la sequenza scomparsa/ritrovamento del cadavere/ricerca del colpevole/processo, che sembra già disegnata per diventare genere letterario (il true crime, appunto), o per l’audience di Chi l’ha visto? o per la sceneggiatura di un film (che infatti fu girato nel 2021).
Il corpo di Yara è riassunto nel suo apparecchio per i denti che brilla come una costellazione; il corpo di Bossetti (si sa che l’assassino è spesso più interessante della vittima) è studiato più realisticamente: gli occhi azzurri, l’abbronzatura con la lampada a raggi ultravioletti (total body), il pizzetto ossigenato, il suo soprannome “il Favola”. Entrambi in realtà sono simboli: Yara è la santa martire per innocenza, Bossetti ha sfumature cristologiche (“chiede da bere, l’acqua sembra aceto”).


Mitologia

Genna esagera la centralità del fatto di cronaca perché la sua non è una docunarrazione, è un mito («l’ultimo mito di cui disponiamo»). Il fatto certamente fu clamoroso, denso di erotismo sottopelle e pirotecnici colpi di scena (anch’io sono stato a qualche seduta del processo), ma Yara non fu il centro del mondo e l’Italia non si fermò per questo. Invece nel libro «l’Italia è Yara e vuole ritrovare sé stessa»; «Mapello periferia di qualsiasi periferia, luogo storico in cui si fa la storia»; «il paese è una croce, la sua delizia è la crocifissione pubblica in un calvario da trasmettere ogni ora»; «Da Nassiriya a Yara. Le Y proliferano e connotano il momento storico». La scrittura non si nega all’enfasi e all’iperbole («Parliamo con la febbre. Gli occhi cerchiati, iniettati di sangue»); Genna quasi chiede alla realtà di essere estrema per giustificare il proprio stile.

Il “caso Yara” diventa l’iper caso che riassume e dà senso a Emanuela Orlandi e Alfredino Rampi, a Denise Pipitone e Sarah Scazzi. È il dna del macabro all’italiana. Caricare lo stile per mostrare scandalo e furore è un vezzo piuttosto comune nella letteratura di oggi, utilizzando il sublime come scorciatoia. Con tutto l’armamentario lessicale e sintattico che ne consegue: paratassi quasi assoluta, frasi brevissime e spesso senza verbo, l’anafora come figura regina, metafore esibitive e violente («il caso gli mastica la carne»).

Ma Genna è stato il primo e il suo fine è differente: mentre per molti lo stile bellicoso serve per accusare tutti gli altri di tiepidezza e diserzione, Genna accusa soprattutto se stesso e chiama il lettore in correità («il colpevole è più morboso della vittima, ma meno morboso di noi tutti»). Al che il lettore, irritato, risponde col facile fastidio della retorica – troppo facile, appunto.


L’ultimo leopardiano

Per Genna l’enfasi stilistica è lo shock della Storia nuda posta di fronte a un astratto e impossibile tribunale paterno; è la risposta alla vergogna. È qualcosa di cui non può fare a meno come non si può fare a meno di un tic al labbro o di una perversione consolidata. Questo libro è uno dei suoi migliori (insieme a Dies irae) perché ormai la sua condanna la conosce e ha imparato a giocarci: «La visionarietà implicita nel mio lavoro è un danno collaterale che do per acquisito e scontato»; «devo tenere a bada il mio apocalittico apparato immaginativo». Sa di essere «un ossesso in preda a una tara, un esorcista conquistato dal male»; sa bene che il suo modo di trattare Yara è ingiusto («nell’iniquità di una storia eletta a vicenda assoluta»), ma sa anche che per lui l’unico modo di affrontarla è farsene coinvolgere formalmente – nel libro il personaggio che dice “io” (o “noi”) è un narratore onnipresente: insieme carabiniere, giurato, commissario, pubblico, spirito della letteratura; non è mai né la morta né l’assassino, perché la vergogna non sta nel delitto. Sta nell’ipocrita voyeurismo di massa, nel Male che si diffonde come un contagio di parole e di fantasie («Il crimine commesso in tempo reale è il tabù. Ed è il sogno inconfessato»). È razionalmente ingiustificato ma narrativamente perfetto che le ultime pagine si chiudano parlando del Covid e dello straordinario tasso di mortalità che colpì proprio le stesse zone in cui si era consumato il delitto Gambirasio (Alzano, Nembro, Brembate di Sopra).

Coincidenza magica tra Ignoto 1 e Paziente 1, morte e oscura punizione. «Lei (scilicet Yara) era un’intera epidemia, qui e ovunque». Più che in altri casi, stavolta Genna ha dalla sua parte il genius loci: quelle tragiche, cupe, ombrose, testoriane zone della Lombardia sono proprio roba sua (straziante il ricordo infantile della filastrocca Ara bell’ara).

Col suo estremismo stilistico ci gioca, dicevo. Fa un po’ il brillante con le parole: «il nuovo centro del mondo, dove converge l’immondo»; «a venti miglia da Ventimiglia»; «lo ha preso l’Arma, lo scarica ad Arma di Taggia»; «delle nostre papille, delle nostre pupille». Si prende in giro, sfida la propria sintassi franta con l’improvviso tour de force di centoventi righe senza un punto fermo, scimmiotta la propria coazione iterativa ripetendo l’aggettivo “grigio” diciotto volte in dieci righe. Immette nella prosa ricordi poetici e teatrali: da Montale («la guardiamo noi della razza di chi rimane a terra») a Shakespeare («l’inverno è scontento») fino a Baudelaire («l’ala dell’imbecillità mi sfiora la nuca») – nell’ultima pagina del libro si esibisce in uno slalom col Pastore errante di Leopardi: «Ogni carne pronta fin dalla nascita, lacera, sanguinosa. Con una fatica a nascere. Sempre rischiare di morire. Con atti, con parole. Viaggiare infermi, per asperità faticose e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, uno spazio di molte giornate per arrivare a un fosso».

Ecco, nell’attuale panorama letterario pieno di riverenze e minuetti, troppo attento al “messaggio positivo”, Genna resta forse l’ultimo (declamante, esagitato) leopardiano in servizio permanente effettivo.

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