Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla sessantaduesima edizione dello European Focus!
Sono Francesca De Benedetti, la caporedattrice di questa settimana, e ti scrivo da Roma.
Quando sono venuta a sapere che una figura organica del mondo orbaniano stava formulando un j'accuse contro il sistema, mi sono domandata se ci siano possibilità che un regime autoritario possa essere terremotato dall'interno.
Gli ultimi scandali ungheresi - innescati per una grazia presidenziale di troppo su una vicenda di pedofilia - hanno portato non solo alle dimissioni della presidente della Repubblica e della ex ministra della Giustizia, ma pure a una lunga intervista - due ore e due milioni di visualizzazioni - nella quale Péter Magyar, da insider di Fidesz, ha "fatto per la prima volta una radiografia pubblica" del sistema orbaniano, come mi ha detto Stefano Bottoni, che di Orbán è biografo.
Boróka, la nostra collega ungherese, in questo Focus si chiede - alla luce delle proteste di piazza che lo scandalo ha innescato a Budapest - se magari non possa essere proprio una falla nella propaganda a far cadere un premier propagandista.

Ok, ma davvero un terremoto politico di questo tipo può smuovere l'autocrate? Mi ricordo di quando tutta Europa rideva del "bunga bunga", e com'è andata a finire? Che solo la crisi economica ha spinto Berlusconi a dimettersi, e in ogni caso lui ha continuato a condizionare il paese, pure dopo la sua morte. Si può dire che la stessa Giorgia Meloni sia in parte una sua eredità politica.
Pure Nicolas Sarkozy continua a influenzare il governo francese, nonostante le sue condanne: ce ne parla Nelly da Parigi.
Quando un autocrate controlla politica, media, economia e società, che speranza c'è di aprire una breccia? Ne parliamo in questa edizione con la squadra europea, e con l'idea che discuterne fra europei serva anche a costruire strategie comuni e a "immunizzarci" dalle derive dispotiche.
Francesca De Benedetti, caporedattrice di questa settimana


UN TERREMOTO A CASA ORBÁN

Katalin Novák si è dimessa dalla presidenza della Repubblica a seguito di uno scandalo. Foto Ansa

BUDAPEST - Per conoscere le sorti di un autocrate, osservate la sua propaganda. L'illiberale e rumoroso Viktor Orbán non è mai rimasto in silenzio così a lungo come con le recenti dimissioni della presidente della Repubblica Katalin Novák.
Si è dimessa perché è emerso che l’anno scorso ha concesso una grazia presidenziale a Endre Kónya, ex vicedirettore di un istituto per l’infanzia che aveva cercato di mettere a tacere le vittime di un caso di pedofilia. Anche Judit Varga, ex ministra della Giustizia e capolista di Fidesz alle prossime europee, si è ritirata dalla vita pubblica perché aveva controfirmato la grazia. Il confidente di Viktor Orbán ed ex ministro delle Risorse umane, Zoltán Balog, si è trovato costretto a porgere le proprie scuse. Vescovo della Chiesa riformata, Balog era consigliere di Novák e ha fatto pressioni per la grazia presidenziale dalla quale è partito lo scandalo.
Questa ondata di dimissioni non ha precedenti nell’Ungheria governata da Fidesz. Ancor più imbarazzante è stato il fatto che Péter Magyar, l’ex marito di Judit Varga, abbia poi rilasciato un’intervista nella quale faceva rivelazioni sui contratti statali e i meccanismi di comunicazione del governo di Orbán. Più di due milioni di persone hanno ascoltato le sue accuse altamente provocatorie. L’incubo di Orbán si è avverato. Il 16 febbraio decine di migliaia di persone hanno manifestato a Budapest.
Alcune settimane dopo lo scandalo e subito dopo quella protesta mozzafiato, il primo ministro ha pronunciato il suo discorso sullo stato della nazione. È apparso a disagio e ha detto che l’anno elettorale non poteva iniziare peggio.
Il potere di Orbán vacillerà? Può darsi. È inquietante che la crisi non sia stata innescata dall’opposizione o dalle critiche al governo, ma da informazioni emerse accidentalmente. L’ipocrisia della propaganda pro-famiglia di Orbán stride con corruzione e repressione praticate dal governo, come emerge dalle critiche che vengono dall’interno, da Magyar. L’opposizione ungherese non è neppure pronta a un’alternanza, e tuttavia a Orbán restano due avversari: la sorte, e il collasso della sua stessa macchina propagandistica.
Boróka Parászka è una giornalista di HVG


IL NUMERO DELLA SETTIMANA: 4

Gif di Karolina Uskakovych

PARIGI - L’ex presidente francese Nicolas Sarkozy è appena stato condannato a un anno di carcere - compresa una sospensiva di sei mesi - per finanziamento illegale della campagna elettorale. Nel 2012 ha speso quasi il doppio del massimo consentito dalla legge per la candidatura alla presidenza, spese che ha coperto utilizzando un sistema di doppia fatturazione.
Prima di lui, nessun presidente francese era mai stato condannato a una pena detentiva. Per Sarkozy si tratta della seconda volta: l’anno scorso era stato condannato a tre anni per aver tentato di ottenere da un giudice informazioni riservate su un altro caso giudiziario nel quale anche lui era perseguito.
In totale, Sarkozy è stato condannato a quattro anni dietro le sbarre. Tuttavia, ha ancora influenza sul governo. Nell’ultimo rimpasto, molti dei suoi protetti sono diventati ministri.
Nelly Didelot fa parte della redazione Esteri di Libération


LA SERBIA E L'UOMO FORTE

Slobodan Milošević incontra il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a Parigi, il 14 dicembre 1995. Foto Central Intelligence Agency/Wikimedia Commons

BELGRADO - Slobodan Milošević, l’uomo forte della Serbia, nei primi anni Novanta era un leader molto amato. Le masse adoravano i suoi discorsi patriottici e le sue invocazioni melodrammatiche sulla Serbia contro tutti, nonché le sue promesse di prosperità economica.
Arrivati al 2000 ci si è ritrovati con la sua eredità che era costituita da una sconfitta in guerra, sofferenza umana, crisi economica, sanzioni, isolazionismo e inoltre la brutale repressione della libertà di pensiero. Con la “rivoluzione d’ottobre” di quell’anno, Milošević era spacciato.
Ma le democrazie non iniziano con un semplice decreto. Dichiarare una vittoria su un regime autoritario o populista non è abbastanza, perché questi si lasciano dietro un deserto sociale nel quale le buone pratiche democratiche fanno fatica ad attecchire.
L’euforia iniziale ha ceduto il posto alla sensazione che i criminali al potere avessero già cambiato fazione, che la magistratura fosse sempre gestita dalle stesse strutture asservite a sé stesse, e che il panorama mediatico fosse dominato dalla clientela di Milošević.
Le riforme in tutti i settori erano difficili da realizzare, dal momento che le istituzioni erano guaste dall’interno, i giovani e l’intellighenzia erano fuggiti dal paese e alcuni dei nuovi funzionari si erano rivelati “mele marce”. C’erano accese polemiche politiche su quale strada il paese dovesse seguire.
I governi successivi non sono riusciti a portare prosperità, e i nuovi scandali relativi alla corruzione si sono accumulati. Ad ogni modo lo stato non aveva più sotto controllo una robusta macchina della propaganda che potesse forzare le persone a vedere tutto attraverso delle lenti colorate.
Quando si perde quella minima occasione di ottenere un vero cambiamento, lo slancio svanisce e le persone iniziano a preferire le lenti colorate rispetto alla necessità di dover affrontare il caos che le circonda. Ci sono tutte le condizioni affinché emerga un nuovo “grande leader”.
La Serbia di oggi ricorda l’era di Milošević. Manca la libertà dei mezzi di informazione e la corruzione dilaga. Le buone pratiche e il bilanciamento dei poteri non hanno alcuna possibilità di attecchire.
Il problema è che dal 2014 c’è un altro grande leader, Aleksandar Vučić, che cavalca il sentimento nazionale, si impegna in discorsi melodrammatici, apre e chiude i notiziari e sbatte le lenti colorate sul naso della gente.
Siniša-Jakov Marusic è un giornalista di Balkan Insight


IL DILEMMA POLACCO

Bartłomiej Sienkiewicz (a destra) fa un annuncio su Tvp. Foto Adam Stępień / Agencja Wyborcza

VARSAVIA - «Avevo una scelta: rimanere su un percorso legislativo che sarebbe durato mesi, o addirittura anni, e avrebbe permesso all’odio di dilagare ulteriormente. Oppure potevo cambiare tutto». Bartłomiej Sienkiewicz, il ministro della Cultura polacco, ha giustificato così la sua decisione di mettere la televisione pubblica polacca in liquidazione.
Stando ad esperti come quelli di Freedom House, la televisione pubblica polacca (Tvp) era diventata uno strumento di propaganda sotto il precedente governo guidato dagli ultraconservatori del Pis.
La decisione del nuovo ministro di licenziare l’attuale direzione della Tvp era contro la legge, poiché il mandato dei nuovi membri sarebbe dovuto durare ancora diversi anni. Il governo guidato da Donald Tusk ha quindi imboccato un percorso rischioso, anche perché non tutti i tribunali intendono dare il loro consenso per la registrazione delle nuove autorità della società Tvp.
Nel 2015, salendo al potere, anche il Pis ha sostituito l’intera direzione della Tvp, il che costituiva una violazione della legalità. Il Pis ha quindi dato vita a una nuova istituzione che gli ha assicurato il controllo del partito su Tvp per gli anni a venire.
Il nuovo governo Tusk si trova di fronte a un dilemma: ripristinare lo stato di diritto e l’indipendenza dei mezzi di informazione in Polonia sarà pure necessario, ma potrebbe non essere del tutto legale.
Michał Kokot fa parte della redazione Esteri di Gazeta Wyborcza


ERDOĞAN RESISTE ALLE SCOSSE

Recep Tayyip Erdoğan. Foto Wikimedia Commons

ANKARA - In oltre un ventennio nel quale la Turchia è stata governata da Recep Tayyip Erdoğan e dal suo partito, l’Akp, il paese ha subìto un terremoto che ha causato la morte di oltre 50mila persone, nonché una crisi economica tuttora in corso, capace di spingere nel 2022 l’inflazione al livello più alto dell’ultimo quarto di secolo.
Nessuna di queste due crisi ha compromesso la tenuta del regime. I risultati delle elezioni presidenziali dello scorso anno, tenutesi tre mesi dopo il terremoto, sono un’ulteriore indicazione della forza di Erdoğan. Il sostegno per il capo di stato ha raggiunto il 76 per cento nella città di Kahramanmaraş, colpita dal terremoto, e il 52 per cento nel paese nel suo complesso.
Per i sostenitori di Erdoğan, se anche lui commettesse degli errori, è il solo a poterli correggere. Secondo un sondaggio condotto l’anno scorso, il 90 per cento degli elettori dell’Akp ritiene che la performance del governo dopo il terremoto sia stata un successo. Erdoğan viene percepito come un leader potente che si prende cura dei bisognosi. I suoi sostenitori ripongono una profonda fiducia in lui. Molte persone conservatrici si sentono accettate e rispettate per la prima volta sotto il regime di Erdoğan.
La fiducia della maggioranza verso Erdoğan è stata generata dalla prosperità economica dei primi anni di governo dell’Akp e dall’assistenza sociale per i poveri. Gli investimenti in autostrade e aeroporti hanno contribuito a creare l’immagine di un “Erdoğan potente”. Gli sviluppi nella fabbricazione di armi, come la produzione del drone Bayraktar utilizzato dall’Ucraina, nonché le notizie dei mezzi di informazione locali su quanto questo drone fosse elogiato all’estero, sono motivo di grande orgoglio tra i sostenitori di Erdoğan.
Allo stesso tempo, il governo ha praticato repressioni verso l’opposizione e i mezzi di informazione liberi, e l’Akp ha costruito un’enorme macchina mediatica che svolge il ruolo di megafono di Erdoğan. Con tali limiti alla libertà di espressione, è difficile convincere un elettorato che la fine di Erdoğan non è la fine del mondo.
Tuğba Tekerek, giornalista freelance, scrive dalla Turchia


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it

Alla prossima edizione! Francesca De Benedetti


(Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

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